di Aldo Cazzullo («Corriere della Sera», 8 marzo 2018)
Non è stata soltanto la prima campagna elettorale giocata in Rete, senza comizi né manifesti né confronti tv. Sono state le prime elezioni decise in Rete. La Rete è la più grande macchina di destabilizzazione politica mai inventata.
La Rete ha acceso le primavere arabe. La Rete era per il No al referendum in Grecia (e ovviamente in Italia), era per la Brexit, era per Trump. Poi certo la Rete non fa da sola la Storia, non sostituisce la realtà; e quindi alle primavere arabe sono seguiti regimi ancora peggiori, la Grecia ha dovuto accettare dall’Europa un piano ancora più severo, la Gran Bretagna si è un po’ pentita e alla Casa Bianca c’è un presidente che perde un pezzo di staff alla settimana. Ma ormai è fatta. Speriamo in Italia di avere miglior fortuna. Intendiamoci: la grande rivolta contro l’establishment, il sistema, la casta, non è causata dalla Rete, ma dalla crisi economica e dal crollo dei partiti e delle élite. Il disagio è reale, nasce dalla distruzione del lavoro, dai privilegi intatti, dalla corruzione crescente (cose vere, altro che fake news, il cui impatto è sopravvalutato). Ma la Rete collega gli scontenti, li alimenta, li rinfocola. E chiunque abbia un curriculum, una storia, una competenza, diventa di per sé sospetto. Altro che «Viva la scienza», come recita uno slogan Pd tra i più infelici di tutti i tempi, che non evoca Rita Levi Montalcini ma la professoressa accigliata che a scuola ci dava cinque meno meno. Lega e Cinque Stelle, poco rappresentati in Rai, sono i partiti della Rete. Salvini ha annunciato di aver superato Macron su Facebook: ora è il secondo leader europeo più seguito dopo la Merkel. La sua pagina è un piccolo capolavoro. Rilancia filmati, quasi tutti di trasmissioni Mediaset (è stata la tv di Berlusconi a imporre l’agenda di Salvini, troppo tardi il proprietario si è accodato con la flat tax e i 600mila clandestini da espellere): il nero che getta via il pane del centro d’accoglienza, il romeno che rapina la vecchietta, i sedicenti antifascisti che picchiano i poliziotti; e li accompagna con hashtag immediati, tipo #stavoltavotolega. Sui social Berlusconi si limita a far annunciare dall’ufficio stampa le sue comparsate televisive, con il doppiopetto e i fogli bianchi in mano. Anche Salvini va spesso in tv, oltre che sul territorio, vestito da gruppettaro; ma usa la tv e il territorio come fondale della sua principale attività: il Web. Non c’è da stupirsi se gli spazi riservati alle affissioni elettorali, per la prima volta dal 1948 e dalle battaglie tra attacchini democristiani e comunisti, sono rimasti vuoti. I padroni della Rete restano ovviamente i grillini: il capo della comunicazione, Rocco Casalino, ex concorrente del Grande fratello, è diventato un autentico leader politico, ha il ruolo che nel Pci dell’era pre-digitale fu di Walter Veltroni. La Rete è potenzialmente un grande strumento di partecipazione. Ma la Rete non si innesta sugli anni della partecipazione, della politica di strada e di piazza, che tra i Sessanta e i Settanta ha fatto molti guai ma è stato l’ultimo momento della Storia in cui i giovani hanno pensato di poter essere felici soltanto tutti assieme, affidando la vita alla politica. La Rete si innesta sugli anni Ottanta e Novanta, quelli del narcisismo, quando pure ballare si ballava da soli, e si è creduto che si potesse essere felici soltanto ognuno per proprio conto. Sul Web l’individualismo diventa narcisismo. Ognuno specchia nella realtà virtuale sé stesso e le proprie paure. Cerca conferma alle proprie pulsioni e attitudini. E magari ci si accontenta di essere tutti assieme infelici. Quando il MoVimento convoca le parlamentarie si decide tutto con poche centinaia di clic, a volte disattesi se contraddicono le inclinazioni della Casaleggio&Associati. Il vero urto del Web è la propagazione del malumore e la sordina messa alle (poche) buone notizie. Se n’è accorto anche Renzi, capace all’inizio di deviare nelle proprie vele il vento dell’antipolitica da cui alla fine è stato travolto. Se Trump per sua stessa ammissione non sarebbe diventato presidente senza i tweet, nel suo piccolo Renzi ha rottamato la Sinistra italiana con un linguaggio icastico, adatto al ritmo sincopato e frammentato dei social; ma quando si è trovato a difendere le ragioni del Palazzo, è apparso precocemente invecchiato nell’eterno presente digitale. Certo, se l’Italia fosse cresciuta a ritmi americani la sua comunicazione avrebbe avuto un po’ più di presa. Ma il racconto ottimista o anche solo realista, come quello della stessa Hillary, è molto più flebile. Figurarsi i rivali alla Sinistra di Renzi. Liberi e Uguali ha riesumato Bassolino a Napoli, Zanonato a Padova, D’Alema in Puglia, Cofferati a Genova, Errani a Bologna, Bersani un po’ dappertutto; e non ha preso molti voti in più degli sconosciuti di Potere al Popolo, sempre in felpa e sempre online. Un po’ come il blogger Adinolfi che ha conquistato 200mila voti, tutti in Rete. Mentre il protagonista della svolta sull’immigrazione è andato nel deserto a trattare con i capi beduini senza farsi neppure un selfie: Marco Minniti non è sui social, e lo rivendica con orgoglio. È finito battuto in una provincia ex rossa da uno smanettone in fuga con gli scontrini.