di Giacomo Aschacher (giornalettismo.com, 13 gennaio 2021)
Censura contro libertà d’espressione, la sfida sempre aperta è diventata il centro del dibattito di questi giorni in merito al ban sui social di Donald Trump, seguito dalla cancellazione del social network Parler sia dagli app store di Google e Apple sia da Aws, l’infrastruttura cloud di Amazon, seguito infine dalla cancellazione di oltre 70mila account collegati al movimento complottista QAnon. Può un social network come Twitter o Facebook arrogarsi il diritto di limitare o bloccare la libertà di espressione? La risposta è scontata: certo che può.Sono aziende private che non rispondono a leggi nazionali o internazionali legate alla libertà di stampa, i cui utenti sottoscrivono dei termini e delle condizioni che lasciano, sostanzialmente, assoluta libertà alle imprese che controllano i servizi social di limitare o eliminare gli account che violano dette regole. La stessa valutazione rispetto alle violazioni dei termini è demandata al social network, che di volta in volta può considerare un contenuto in linea con le policy aziendali oppure una violazione. Quanti tweet o post di Trump degli ultimi sei o sette anni erano in violazione dei termini e condizioni di Twitter o Facebook? Forse molti ma la “censura” si è concretizzata, a parte rare occasioni, solo nelle ultime settimane. Perché?
La risposta più ovvia è che il 6 gennaio 2021 il Campidoglio degli Stati Uniti è stato preso d’assalto, così come la stessa democrazia americana. Ma possono questi tragici avvenimenti causare anche una censura in un mondo digitale e virtuale? Sui social network si sono sempre trovati messaggi reazionari di estremisti, gruppi apparentemente intenzionati a sovvertire l’ordine costituito e tweet del Presidente americano in cui apertamente si schierava con le frange più violente e razziste dei movimenti suprematisti bianchi. Tante volte questo rumore antidemocratico si è concretizzato in azioni violente che prendevano di mira minoranze etniche o delegittimavano il potere democraticamente eletto. La domanda ritorna: perché proprio ora Facebook, Twitter, Google, Apple e Amazon hanno scelto di agire bloccando utenti e contenuti? Perché Google e Apple non hanno tolto dai propri store Facebook e Twitter che per anni hanno diffuso gli stessi contenuti presenti solo recentemente su Parler? I temi e le persone coinvolte sono esattamente gli stessi, ma solo dopo l’assalto al Campidoglio vi sono state azioni concrete. Forse queste grandi aziende hanno sempre sottovalutato sé stesse, non ritenendo che una serie di fake news e commenti violenti potessero realizzarsi in un attacco concreto a una democrazia occidentale. Un’idea del genere sarebbe quanto meno ingenua.
Di fronte all’assalto del 6 gennaio i social network dovevano agire, altrimenti probabilmente l’avrebbe fatto lo stesso governo degli Stati Uniti, o l’Unione Europea, o qualche altro governo. La paura che una legge dall’alto limiti le regole (o le non–regole) relative ai contenuti presenti all’interno di un social network, o di uno store che ospita tali applicazioni, o di un’infrastruttura che ospita il loro codice software, può aver costretto le Big Tech a prendere per la prima volta, in maniera coordinata, provvedimenti drastici. Vincoli dall’alto rischierebbero di minare gravemente un business costruito proprio sull’assenza di regole. Può sembrare un paragone azzardato, ma quanto successo a Mindgeek – holding proprietaria di Pornhub e molti altri siti pornografici – lo scorso mese è indicativo di ciò che potrebbe accadere se un tassello fondamentale su cui si fonda il business di Facebook & co. venisse a mancare. In quel caso un articolo del New York Times denunciò la presenza di contenuti illegali caricati dagli utenti di Pornhub. La valanga che investì la società canadese (con sede in Lussemburgo) fu enorme: centinaia di migliaia di video e account cancellati, oltre all’interruzione del blocco dei pagamenti con carta di credito operata da Visa e Mastercard. Un danno economico incalcolabile all’interno di un processo speculare a quanto sta accedendo ora nell’affaire elezioni americane: contenuti cancellati, account bloccati, servizi di terze parti inibiti, in questo caso, da Google, Apple e Amazon.
La vera paura delle Big Tech è che i governi si sveglino e impongano delle regole e, soprattutto, delle sanzioni legate a responsabilità dirette nei confronti dei contenuti che gli utenti pubblicano all’interno di un social network, un’applicazione, oppure all’interno di un’infrastruttura di rete. Sono emblematiche le recenti dichiarazioni del governo tedesco e del governo francese che accusano i social network di autoregolamentarsi, e chissà se un brivido lungo la schiena sarà corso a qualche membro di un loro consiglio di amministrazione dopo le parole di Thierry Breton, commissario UE per il mercato interno: «I fatti di questi ultimi giorni dimostrano che non si possa più restare a guardare e fare affidamento sulla buona volontà delle piattaforme. Dobbiamo stabilire le regole del gioco e organizzare il mondo digitale con diritti, obblighi e garanzie definite. Dobbiamo ripristinare la fiducia nel mondo digitale. Nel XXI secolo, è una questione di sopravvivenza per le nostre democrazie».