di Andrea Coccia (linkiesta.it, 7 luglio 2018)
Una copertina con i colori dell’arcobaleno. Una scritta: “Noi non stiamo con Salvini” e un sottotitolo: “Da adesso chi tace è complice”. Poi, all’interno, un editoriale contro la barbarie e l’elenco di personalità celebri del mondo dello spettacolo e dell’arte. La mossa di Rolling Stone, che ieri ha scatenato reazioni che manco un derby in finale di Champions League, ha avuto sì una eco mediatica immensa.Ma se andiamo a vedere i risultati sul dibattito e, soprattutto, sulla realtà delle cose, il suo effetto è stato, più che nullo, decisamente controproducente. La costruzione di un fronte indignato contro la barbarie non è una mossa inedita, certamente. Siamo già tutti stati Charlie; siamo stati tutti francesi con la bella bandierina tricolore in filigrana delle nostre foto su Facebook; siamo tutti stati sulle barricate dell’hashtag activism, a battagliare contro la diffusione di un, ehm, hashtag, in un social network che conta in Italia circa 7 milioni di utenti attivi mensili; e in moltissimi siamo anche pronti a metterci magliette rosse, questo sabato, per manifestare l’appartenenza a questo popolo indignato che non ci sta, che ha smesso di tacere e che non tacerà più. Ma gli effetti? A che cosa serve, anzi, meglio, a cosa porta tutto questo tafanarsi sui social network o sulle pagine di riviste dalla distribuzione molto relativa? Ecco, la situazione è talmente disperata che se la risposta fosse niente sarebbe meglio. Già, per la risposta a questo attivismo che sa di marketing più che di lotta è di segno opposto, è negativo, terribilmente negativo, come ha dimostrato da ultimo proprio il caso della scelta di Rolling Stone, annegata online in infiniti flussi di sbuffi (quando va bene), o peggio, di insulti e critiche, anche provenienti da sinistra. Sono due, in particolare, le controindicazioni che avrebbero dovuto spingerci a cambiare strategia già da un po’. La prima, quella più immediata e superficiale, è che questo genere di indignazioni a fiammata sono, per coloro su cui l’indignazione si riversa, una vera e propria fabbrica ininterrotta di piatti d’argento, o, se preferite la metafora sportiva, di alzate dall’altra parte della rete a invocare la devastante e facilissima controschiacciata in faccia. La seconda, più tellurica, profonda e per questo pericolosa per tutta la parte dell’arco politico e sociale che ora si trova a dover lottare per le proprie idee, è un effetto che potremmo chiamare suprematismo morale o elitismo. Un effetto che, nel clima in cui ci troviamo, con una opinione pubblica che sente sempre di più il richiamo delle parabole retoriche populiste, è sostanzialmente un suicidio politico. Un suicido che per di più avrà strascichi molto lunghi sulla possibilità di creare un vero fronte politico che cominci a dar battaglia sul serio al pensiero comune qualunquista che si sta prendendo, senza alcuna difficoltà, la maggior parte del Paese. Mi si dirà che esagero? Che in una situazione in cui dobbiamo sconfiggere Hitler io invece faccio lo snob e il puntiglioso e punto la pistola contro l’unica resistenza che è oggi attiva in Italia? E invece no, non credo di esagerare, perché l’evidenza è che questo miscuglio di indignazione ex cathedra di noi privilegiati — ecco, iniziamo a pensarci seriamente su quanto lo siamo, privilegiati — e di suprematismo morale e culturale sta iniettando benzina sul grande falò del qualunquismo e del populismo, piuttosto che il contrario. E allora, cosa dobbiamo fare? Una cosa che sta diventando sempre più difficile in un mondo in cui siamo sempre tutti più collegati, ma contemporaneamente tutti sempre più soli e isolati nella nostra bolla ideologica e sociale: dobbiamo riunirci, vederci, discutere, agire. Dobbiamo tornare a parlare invece che a tifare, tornare ad aprire invece che a chiudere ed isolare. Dobbiamo tornare a batterci, a lottare, e smettere una volta per tutte di giocare a chi ha l’hashtag più grosso o a chi ha più artisti e scrittori da schierare. I muri non si sconfiggeranno mai con altri muri. E se è vero che il 60 per cento degli italiani è sul serio d’accordo con Salvini e Di Maio (quindi compreso un buon numero che viene da una storia politica di sinistra e di estrema sinistra), mi spiace ma l’unico modo che abbiamo di riconquistare la loro attenzione e di farli tornare a ragionare non è certo isolarci nella nostra torre d’avorio. Non è incastellarsi la soluzione, è aprire le porte, conoscerci, ricostruire su un tessuto sociale, in tempi che purtroppo non possiamo sperare troppo brevi, un nuovo tessuto politico. In un’epoca in cui gli Stati Nazione tendono soprattutto a conservare sé stessi, tendendo a dimenticare quello di cui sono fatti, ovvero individui, l’unica salvezza è riprendersi le comunità, tornare nelle strade, nelle piazze, nei porti, nelle stazioni. Ma non dietro a uno striscione con scritto “Noi non stiamo con Salvini”, perché in politica, come nella letteratura e nel cinema, soprattutto dopo la caduta delle ideologie novecentesche, varrà sempre di più il concetto “Show, Don’t Tell”. Scendere nelle strade e nelle piazze, ma anche nei circoli, nelle sezioni, nelle assemblee cittadine, deve significare far esplodere la bolla dentro la quale ci siamo autocondannati, una bolla comunicativa, non reale, dentro la quale infatti funzionano le regole della comunicazione e del marketing, e non quelle della realtà. Non c’è altra strada: dobbiamo capirlo che se un partito che ha 5 milioni e mezzo di elettori (la Lega) si può comportare come uno che di voti ne ha presi 25-30 milioni è soltanto perché lì dentro, in quella bolla virtuale dove gli stiamo dando battaglia, tutto si distorce e muta, e un cagnolino nano e tremante di paura può tranquillamente sembrare un feroce lupo assetato di sangue.