di Francesco Cundari (linkiesta.it, 25 dicembre 2023)
Se dovessi riassumere in poche parole la principale differenza tra la politica di oggi e quella degli anni in cui mi sono formato – ma potrei fare lo stesso discorso, a maggior ragione, sui tempi dei miei genitori e persino dei miei nonni – direi che allora occuparsi di politica significava studiare, approfondire, sforzarsi di capire. Va bene, ho esagerato. Mi correggo. Significava, se non proprio studiare, quanto meno fingere di averlo fatto.
Per non sfigurare: con gli amici al bar, con le ragazze a cena, con i compagni di scuola nelle assemblee di istituto e persino, nei casi più gravi, con i propri genitori. Oggi significa, sempre più spesso, l’esatto contrario: ignorare e parlare a vanvera, per fare casino o per fare a botte, anche solo virtualmente. E vantarsene pure. Propaganda, manipolazioni e disinformazione sono sempre esistite, naturalmente.
Di fake news ed epoca della post-verità si parla almeno dal 2016, anno in cui la combinazione di quelle antiche tecniche di inquinamento del dibattito con le nuove tecnologie e la nuova dimensione globale dello spazio pubblico creata dai social network aveva già avuto enormi conseguenze, anzitutto nella campagna per l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea e nella vittoria di Donald Trump negli Stati Uniti, ma anche nell’esasperazione dello scontro tra indipendentisti e unionisti in Catalogna (l’esempio è troppo spesso trascurato, e invece è il più istruttivo, considerando come gli stessi soggetti, in particolare la Russia, abbiano sostenuto in vari modi gli estremisti di entrambe le parti in conflitto, dalla sinistra catalana ai post-franchisti di Vox).
L’impressione tuttavia è che dal 2020 a oggi, dalla pandemia alla guerra in Ucraina, fino alla nuova crisi israelo-palestinese, il fenomeno abbia compiuto un ulteriore salto di scala. In ciascuna di queste occasioni hanno fatto il loro prepotente ritorno temi e stilemi classici della propaganda anti-occidentale, anti-democratica, anti-liberale e anti-illuministica, accumulati nel corso dei secoli tanto all’estrema destra quanto all’estrema sinistra, dai tempi della Rivoluzione Francese in avanti. La novità è che quanto fino a ieri era semplicemente uno strumento, una delle tante armi con cui i diversi schieramenti conducevano la loro lotta, una parte dell’insieme e anche relativamente marginale, è diventato l’elemento centrale.
Troppo a lungo le democrazie occidentali hanno sottovalutato il rischio rappresentato dalla disinformazione e dalla manipolazione delle opinioni pubbliche nazionali (la fabbrica dei troll del non compianto Yevgeni Prigozhin è solo l’esempio più celebre), in particolare attraverso la diffusione sistematica di contenuti mirati ad alimentare odio, soffiando sul fuoco delle divisioni sociali, politiche ed etniche: on line attraverso migliaia di bot e profili fake, off line attraverso decine di fake giornalisti, fake politologi e fake politici. Con la guerra, prima in Ucraina e ora in Medio Oriente, il problema ha assunto una nuova dimensione, ed è a tutti gli effetti uno dei fronti più delicati del conflitto, laddove si combatte la battaglia per condizionare gli elettori e quindi i governi, allo scopo di spezzare la solidarietà occidentale.
Se questa è però una sfida globale, va detto che l’Italia si presenta come l’anello più debole della catena, per ragioni storiche di cui abbiamo parlato molte volte. In un certo senso, i nostri troll ce li siamo allevati in casa, sono un prodotto autoctono, a chilometro zero, e li abbiamo lasciati proliferare, prima ancora che in politica, nell’informazione e nella comunicazione, fino a lasciar scomparire quasi del tutto la stessa distinzione tra testate autorevoli e fogli scandalistici, per non dire più semplicemente tra giornalismo e populismo (la campagna contro “la casta” su cui sarebbe fiorito il grillismo, nel 2007, fu lanciata dal Corriere della Sera, mica dal Fatto Quotidiano, che allora neanche esisteva).
Su questo terreno fertile è germogliato nel corso degli anni quell’ecosistema dis-informativo in cui oggi ci troviamo a soffocare, fino all’atroce spettacolo offerto negli ultimi anni in particolare dalla tv, con assurdi confronti tra scienziati e santoni no vax, tra studiosi di politica internazionale e sociologi da baraccone, tra professionisti riconosciuti e disinformatori di professione. L’involuzione del dibattito politico è andata ovviamente di pari passo, sfociando nel teatro dell’assurdo di questi nostri giorni disgraziati.
Dalla nascita del suo governo, il complotto mondiale contro Giorgia Meloni si è arricchito ogni giorno di nuovi protagonisti: le ong che salvano esseri umani in mare, accusate di riempire l’Italia di immigrati (sebbene gli immigrati sbarcati dalle navi delle ong siano una frazione di quelli soccorsi dalla guardia costiera); la Germania che ne finanzia un paio, accusata di voler destabilizzare il governo italiano (sebbene gli immigrati portati dalle ong finanziate dalla Germania siano ovviamente una frazione della frazione); i giudici che accolgono i ricorsi degli immigrati, liberandoli dai centri di permanenza per i rimpatri, accusati di voler colpire il governo per motivi ideologici (e per questo fatti oggetto di inquietanti campagne di intimidazione e dossieraggio).
E poi ancora i mercati finanziari, che naturalmente metterebbero sotto pressione i nostri titoli di Stato soltanto per ragioni politiche (accusa che, se sviluppata coerentemente, finirebbe tra l’altro per attribuire agli avidi speculatori di cui sopra i tratti di audaci idealisti, pronti a rischiare il proprio denaro per seguire le proprie convinzioni). E infine, si capisce, l’Unione Europea, che non ci aiuterebbe, o addirittura congiurerebbe contro di noi, su ciascuno di questi fronti, dall’immigrazione ai conti pubblici. Il punto è che su ognuno di questi temi, e sui molti altri che si potrebbero citare, non si confrontano diverse visioni dell’economia e della società, e sarebbe del tutto fuorviante anche parlare di contrapposizioni ideologiche.
La verità è che i Paesi europei che noi accusiamo regolarmente di lasciarci soli dinanzi alle ricorrenti “crisi dei migranti” ne accolgono molti più di noi, anche perché siamo noi stessi a rifilarglieli, lasciandoli scappare alla chetichella (in violazione del famigerato Trattato di Dublino), salvo poi gridare all’egoismo di Francia e Germania quando ce lo fanno notare. Ancora più surreali sono le ricorrenti accuse all’Europa di volerci “strangolare” economicamente, con le sue famose regole di bilancio e con la sua ideologia dell’austerità, dopo che quella stessa Unione Europea ci ha finanziato un piano di investimenti da centonovanta miliardi, di cui settanta a fondo perduto (in parole povere: regalati).
Il guaio è che a fronte del delirio complottista della maggioranza, si staglia un’opposizione che ha quasi completamente abbandonato l’idea di contrastare le falsità con i dati di fatto, la follia con il senso di responsabilità (concetto ormai definitivamente squalificato e quasi impronunciabile, anche a sinistra, purtroppo), essendo peraltro responsabile, e parlo tanto del MoVimento 5 Stelle quanto del Partito Democratico, della più grande voragine aperta nei conti pubblici nella storia recente, il celebre superbonus, per di più a tutto vantaggio delle classi medio-alte (i proprietari di case).
Certo che esagerazioni e manipolazioni propagandistiche sono sempre esistite, ma un tempo le discussioni politiche erano anche lo scontro di diverse visioni della storia, della società e dell’economia, che costringevano pure i più renitenti a fare almeno un piccolo sforzo per darsene una qualche infarinatura. Nessuna persona seria, oggi, ha alcun motivo di perdere più di trenta secondi a studiare la paccottiglia para-antisemita sui complotti di George Soros e sul cosiddetto Piano Kalergi, su cui si fonda il novanta per cento della propaganda della destra sull’immigrazione, o quella grottesca parodia del keynesismo in cui consiste la Contenomics.
Una volta, nelle riunioni di partito, era abituale il richiamo alla distinzione tra politica e propaganda, con l’invito a risparmiarsi, nel dibattito interno, slogan e formule di rito. I dirigenti si facevano un punto d’onore, in quelle occasioni e non solo, di lasciare ad altri le frasi fatte e le esagerazioni utilizzate nelle mobilitazioni. Non dubito che qualcuno di loro usi ancora espressioni del genere, reperti di un’epoca passata, come tanti di noi dicono ancora “non ho una lira” o “ho ascoltato un disco”. Quello che mi domando è se oggi, ripetendole, gli scappi almeno un po’ da ridere.