di Luigi Daniele (linkiesta.it, 27 aprile 2022)
Lo scorso giovedì, l’ex presidente americano Barack Obama è intervenuto in un incontro sulle sfide poste alla democrazia dall’informazione digitale, organizzato dal Cyber Policy Center, un ente di ricerca collegato all’Università di Stanford. Pur riconoscendo il ruolo innovativo ed emancipatorio che può essere svolto dalle piattaforme on line, Obama ha sostenuto come l’infodemia contemporanea rischi, contro ogni sua promessa di democraticizzazione della società e dell’informazione, di tradursi nel suo opposto. Anche a causa di attori che deliberatamente intendono sfruttarne le criticità intrinseche. Tra questi attori, non ci sono solo «aziende che sono venute a dominare Internet in generale e le piattaforme di social media in particolare», le quali prendono «decisioni che, intenzionalmente o no, hanno reso le democrazie più vulnerabili», ma anche «consulenti politici» o «potenze straniere» che possono «sfruttare strumentalmente gli algoritmi delle piattaforme o aumentare artificialmente la portata dei messaggi ingannevoli o dannosi».
Come esempi di uso distorsivo dei social network e dell’informazione on line con effetti sulla polarizzazione del dibattito politico nelle realtà interessate, Obama ha citato esplicitamente, tra gli altri, l’uso dei social fatto dai sostenitori di Donald Trump e le campagne di disinformazione di cui la Russia è accusata in diversi Paesi. L’ex presidente non è nuovo a questo tipo di interventi sul tema: qualche giorno prima, all’Università di Chicago, ha affermato la necessità di «misure regolatorie e norme industriali» che permettano alle piattaforme private di fare business impedendo, al tempo stesso, le pratiche «potenzialmente lesive per la società». Negli ultimi anni, il dibattito statunitense sul legame tra informazione, social network e democrazia ha assunto accenti che, a lungo, nella mentalità comune americana, sono sembrati eccessivi, finendo per sfociare nella discussione per certi versi filosofica su come trovare il giusto mezzo tra il garantire la libertà di parola e di informazione e il limitare gli attacchi alla democrazia da parte di chi promuove disinformazione approfittando proprio di questa libertà, cioè alterando quei meccanismi decisionali e di produzione del consenso che sono alla base delle democrazie occidentali.
Anche sulla base di questa nuova consapevolezza, alimentata peraltro da casi come quello di Cambridge Analytica, che ha portato all’audizione di Mark Zuckerberg presso il Parlamento, il Congresso statunitense sta attualmente discutendo su una serie di riforme che hanno l’obiettivo di attribuire maggiori responsabilità e limiti alle piattaforme on line, soprattutto ai colossi come Meta, Google e Twitter, introducendo regole più severe in materia di privacy, per tutelare i cittadini, e di concorrenza, per evitare che un monopolio economico si trasformi in un’arma politica. Soprattutto, anche negli Stati Uniti si sta facendo sempre più strada l’idea che le piattaforme siano responsabili dei contenuti pubblicati attraverso di esse, e che a queste spettino responsabilità in termini di moderazione e di verifica (ad esempio per le notizie o i commenti pubblicati). Una visione da tempo giudicata prettamente europea, ma che presto potrebbe divenire dominante anche sull’altra sponda dell’Atlantico, dal momento che si discute sempre più spesso di aggiornare il Communications Decency Act, risalente al 1996, modificando quelle sezioni che garantiscono ampia libertà alle piattaforme, sollevandole dalle responsabilità per i contenuti postati dagli utenti.
L’Unione Europea, a differenza degli Stati Uniti, segue da più tempo la prospettiva di una limitazione delle piattaforme, tanto in termini di accumulazione di peso politico quanto di responsabilità sui contenuti. Negli scorsi anni, il Parlamento Europeo ha lavorato in più occasioni sulle campagne di disinformazione organizzate in diversi Paesi membri ad opera di potenze extra-UE, al fine di influenzare l’opinione pubblica diffondendo visioni a loro più congeniali su alcuni temi strategici o alimentando notizie false che favorisse i partiti considerati in qualche modo a loro più vicini. A marzo, il Parlamento ha approvato la relazione della commissione speciale Inge, sulle interferenze straniere nei processi democratici dell’Unione e dei suoi Stati membri: in essa, si sottolinea come le piattaforme on line siano spesso state utilizzate da Stati esterni per diffondere disinformazione. La commissione Inge, per questo, ha chiesto «una legislazione europea che garantisca una trasparenza, un monitoraggio e una responsabilità significativamente maggiori per quanto riguarda le operazioni condotte dalle piattaforme on line», oltre che una serie di misure per «obbligare le piattaforme, specialmente quelle che presentano un rischio sistemico per la società, a fare la loro parte per ridurre la manipolazione e l’interferenza delle informazioni».
Nella direzione di un coinvolgimento maggiore delle piattaforme nella lotta alla disinformazione, del resto, si muove anche il Digital Services Act, di recente approvato in versione definitiva dal Consiglio dell’Unione Europea, che prevede ad esempio diversi limiti alla profilazione degli utenti e diversi obblighi in materia di trasparenza sulla moderazione dei contenuti, oltre che la possibilità per la Commissione Europea di adottare misure verso le piattaforme che contribuiscono alla diffusione on line di notizie false. «Il Dsa è un passo importante per la sicurezza di Internet a livello europeo, perché punta sull’accountability delle piattaforme, fornendo una serie di strumenti utili alla lotta alle fake news e assicurando agli utenti la possibilità di contestare l’azione delle piattaforme», racconta Maria Giovanna Sessa, Senior Researcher di EU DisinfoLab, un think tank che analizza i meccanismi di diffusione della disinformazione nell’Unione Europea e le policy di contrasto. Un ottimismo di fondo condiviso anche da diversi europarlamentari, come Brando Benifei, capodelegazione del Partito Democratico, che definisce il Dsa «un buon testo, che finalmente garantisce potere e tutele a cittadini e consumatori» ponendo l’accento su come siano previste «norme più stringenti sulla trasparenza degli algoritmi» oltre che «una procedura più chiara di notice & action in cui gli utenti avranno il potere di segnalare contenuti illegali on line, come l’incitamento all’odio o il revenge porn, e le piattaforme on line dovranno agire rapidamente».
Secondo Sessa, però, un limite del Digital Services Act è rappresentato dal suo riguardare solo le piattaforme con più di 45 milioni di utenti, mentre «anche quelle minori meritano attenzioni e ulteriori interventi regolatori: negli ultimi anni, infatti, diverse comunità estremiste e cospirazioniste sono migrate su di esse proprio perché percepite come meno rigide sulla moderazione dei contenuti». Un punto dirimente della regolazione delle piattaforme, infatti, è quello di evitare per quanto possibile il cosiddetto “effetto bolla”, cioè la dinamica per cui si è esposti a fonti informative che confermano le proprie convinzioni, per quanto errate ad estreme siano. «Sebbene l’effetto bolla sia in un certo senso sempre esistito, le piattaforme hanno esasperato questo trend», continua Maria Giovanna Sessa: «Molti algoritmi si basano sulla continua personalizzazione dei contenuti, falsando la percezione di quanto un tema sia diffuso e condiviso. Si rinforza così la tendenza a rifiutare posizioni in conflitto con il proprio pensiero precostituito, trascinando l’utente in un circolo vizioso difficile da spezzare».
È chiaro che la prospettiva di attribuire maggiori responsabilità alle piattaforme solleva alcuni nodi problematici per quanto riguarda il monitoraggio dell’applicazione delle norme. A livello politico, e più profondamente culturale, però, il fatto che questa visione sia perseguita da tempo dalle istituzioni europee evidenzia la presa di coscienza di come, oggi, tutelare la libertà di parola e di informazione significhi anche agire contro gli abusi di essa. Un apparente conflitto tra due esigenze della democrazia, necessario però per la sua tutela, in maniera simile a come la difesa dell’ordine democratico rende necessaria la repressione delle forze che lo mettono in discussione. In questo senso, è significativo che anche in area statunitense, tradizionalmente incline a un’interpretazione estesa dal concetto di libertà di parola, si stia iniziando a muoversi in questa direzione, seguendo l’esempio europeo nel modo di declinare la risposta ai rischi per la democrazia causata da alcuni usi delle piattaforme on line.