Oltre il mito di Alberto Sordi

di Christian Raimo (internazionale.it, 8 agosto 2020)

Alberto Sordi fa cent’anni. Senza la pandemia sarebbe stato il suo anno: una grande mostra a Roma, la sua villa aperta al pubblico come un mausoleo, documentari. Film biografici uno dopo l’altro: Permette? Alberto Sordi; Alberto Sordi, un italiano come noi; Siamo tutti Alberto Sordi? E speciali della Rai: Alberto Sordi. Storie di un italiano; Sordi, un italiano a Roma. La figura di Sordi è vista in maniera piuttosto univoca: è un sinonimo dell’italiano medio, dei suoi vizi, l’aggiornamento più popolare di un carattere millenario.il_vigileIl saggio della storica Silvana Patriarca, Italianità. La costruzione del carattere italiano (2010), parte proprio da Sordi per introdurre il tema che dà il titolo al libro: «Nel febbraio 2003 tutti i più importanti giornali italiani dedicarono pagine e pagine alla scomparsa di Alberto Sordi, il popolare attore protagonista di decine di film dell’Italia repubblicana. Quasi tutti i commentatori furono concordi nell’affermare che nei suoi film Sordi aveva rappresentato meglio di ogni altro il carattere degli italiani. Per il quotidiano cattolico Avvenire era stato “lo specchio” dell’Italia. Il Corriere della Sera salutava in lui “l’eroe di tutti i nostri difetti”, mentre per la Repubblica aveva incarnato l’“arte di essere italiani” personificando “una mescolanza di difetti” inequivocabilmente italici. Per l’Unità Sordi era stato un “piccolo grande italiano” e per il Secolo d’Italia era un simbolo nazionale che per cinquant’anni aveva dato “un volto ai vizi e alle virtù degli italiani”».

Alberto Sordi è diventato il monumento più rappresentativo della cultura italiana. Com’è successo che un artista piuttosto reazionario e un’opera a tratti invecchiata siano ancora oggi così centrali nel nostro canone?

Crisi e santificazione

Negli anniversari a parlare sono soprattutto i fan, e tutti i documentari e i libri – almeno una decina usciti nel 2020 (da Alberto Sordi. Storia di un italiano di Giancarlo Governi ad Alberto Sordi. Una vita tutta da ridere di Italo Moscati, alla riedizione di Alberto Sordi di Maurizio Porro) – sono dichiaratamente apologetici. Nei suoi ultimi anni in vita, e anche in quelli successivi, si è creata una sorta di agiografia intorno a lui. Prima di questa santificazione laica, c’era stata una fase abbastanza lunga in cui l’immagine di Sordi era sembrata in crisi. La prima critica che lo prende sul serio è quella di Goffredo Fofi, che se ne occupa – quasi suo malgrado, è Sordi stesso che lo incalza per autolegittimarsi – negli anni Settanta, quando Sordi smette di essere soltanto un attore e comincia a fare il regista. Una parte di carriera, questa, che viene unanimemente considerata minore. (La richiesta di Sordi a Fofi è raccontata nel numero recente di Bianco e Nero, Sordi segreto).

Sordi cerca un’attenzione della critica anche perché il nuovo cinema impegnato vede in lui il prototipo di cliché deteriori e conformisti. Pier Paolo Pasolini, negli Scritti corsari (1975), appunta: «Di che specie è il riso che suscita Alberto Sordi? Pensateci bene un momento: è un riso di cui ci si vergogna. (…) È la comicità che nasce dall’attrito, con la variopinta e standardizzata società moderna, di un uomo il cui infantilismo anziché produrre ingenuità, candore, bontà, disponibilità, ha prodotto egoismo, vigliaccheria, opportunismo, crudeltà. È una deviazione dell’infantilismo». L’infantilismo, ci torneremo. L’insofferenza di Pasolini diventa idiosincrasia in Nanni Moretti. «Ma che siamo in un film di Alberto Sordi? Te lo meriti, Alberto Sordi», è la battuta di Ecce bombo nel 1978. L’iconoclastia che riduce Sordi a campione del conformismo dura poco. L’attore e regista passa in un lampo dall’essere un cliché a essere un mito. Se il suo rapporto con gli intellettuali e il cinema d’autore è complicato e negli anni della contestazione i ruoli che interpreta alle volte sembrano fuori contesto o in contrasto con lo spirito dei tempi, gli anni del riflusso e quelli della sua vecchiaia fanno sì che questa astoricità di Sordi diventi quasi un valore.

Goffredo Fofi s’impegna a cercare un legame fra la sua figura sociale e quella sullo schermo. La monografia di Fofi esce nel 2004 e dà la stura a una bibliografia di decine di testi, che mescolano la celebrazione a un discorso sulla funzione che l’attore e regista ha assunto nell’immaginario. Va ricordato però – soprattutto visti i tantissimi titoli pubblicati quest’anno – che i testi dove Sordi è affrontato al meglio sono La commedia all’italiana di Maurizio Grande e Il cervello di Alberto Sordi di Tatti Sanguineti, che racconta Sordi attraverso il suo sceneggiatore d’elezione, Rodolfo Sonego. Grande e Sanguineti servono a districarsi in mezzo a tutta l’esaltazione per Sordi, a cercare di mappare la sua filmografia sterminata. Senza rimanere incantati dal mito, ma attraversandolo. Due anni fa anche Andrea Minuz e Christian Uva hanno organizzato un convegno all’Università La Sapienza di Roma in cui hanno provato a essere meno encomiastici, e a ragionare criticamente anche su due aspetti più irrisolti: la questione di genere e il rapporto con gli intellettuali.

Critica di genere

Sulla prima non ci si è mai molto soffermati, proviamo a farlo. Ne possiamo parlare partendo da una scena di Amore mio aiutami, uscito nel 1969 e diretto dallo stesso Sordi. Il film racconta la storia di Giovanni e Raffaella (Sordi e Monica Vitti) che sono una coppia felice finché lei si innamora di un altro, Valerio (interpretato da Silvano Tranquilli), un intellettuale raffinato, amante della musica, più giovane di Giovanni. Giovanni e Raffaella provano a gestire il tradimento come una coppia aperta e moderna, finché lui perde il controllo. Qualche giorno fa il regista Daniele Luchetti scriveva su Facebook: «Sto vedendo Amore mio aiutami di Alberto Sordi. La morale del film è che se hai la moglie che si innamora di un altro non c’è una cura migliore di una scarica di sberle (costole rotte, setto nasale piegato, colonna deviata) per farla tornare ad amarti. Come si fa a prendersela con statue nei parchi, e non con questi film popolarissimi?».

Se diamo per buona l’affermazione che in Sordi si specchia l’italianità, ci possiamo anche chiedere che tipo di mascolinità abbia incarnato e come questa mascolinità abbia a che fare con l’italianità. Una buona risposta la dà Francesca Cantore nel saggio Figlio, marito, capofamiglia. Alberto Sordi e la rappresentazione della mascolinità tra gli anni Cinquanta e Sessanta. Scorriamo i titoli di Alberto Sordi e troviamo una costante: personaggi che giocano sull’ambiguità, volentieri fedifraghi, quasi mai impegnati in una relazione, spesso effeminati, bambinoni. In Mamma mia, che impressione! (1951) Sordi è un immaturo petulante dai capelli ossigenati, con atteggiamenti e movenze marcatamente femminili; ne I vitelloni (1952) è un ragazzo che non vuole diventare adulto e che preferisce il cameratismo alle relazioni. Sordi fa le vocine, si maschera anche da maschio asessuato, malinconico: negli stessi Vitelloni, ne Il conte Max (1957), in Venezia, la luna e tu (1958), dove interpreta un seduttore triste, un latin lover inetto. Bambinone, bambinesco, infantile, adolescente fuori tempo massimo, mammone.

Mammismo

Il concetto chiave per comprendere Sordi è una categoria tipicamente italiana: il mammismo. Silvana Patriarca ha scritto un bellissimo saggio sul tema, On momism, e Cantore lo usa bene per riprendere la critica di genere a Sordi: «Come prototipo di maschio debole e codardo, questo tipo di solito vive in una famiglia dominata dalle donne e non è in grado di imporsi nel mondo esterno, nella sfera pubblica in cui gli uomini si definiscono in termini di genere distintivo». Ritroviamo il suo essere mammone in Un eroe dei nostri tempi (1955) di Mario Monicelli, dove come al solito è scapolo ma dipendente affettivamente dalla zia; ne Il segno di Venere (1955) di Dino Risi, dove il suo personaggio prova a emanciparsi facendo il truffatore ma finisce per consolarsi tra le braccia di mamma; in Mio figlio Nerone (1956), dove l’unica salvezza emotiva è la madre Agrippina (Gloria Swanson); ne Il vedovo (1959), dove interpreta Alberto, un marito succube che cova vendetta contro la moglie Elvira (Franca Valeri, immensa), ma vorrebbe al tempo stesso la sua indulgenza.

Sordi attore, Sordi regista, Sordi personaggio pubblico, nei film e nella vita Sordi sbeffeggia chi costruisce una relazione o mette su famiglia: il personaggio di Nando Mericoni di Un giorno in pretura (1953) e Un americano a Roma (1954) è contento di vivere a casa di mamma, così come il vero Alberto Sordi, che, ogni volta che veniva intervistato sulla sua vita privata e sul perché non si fosse sposato, rispondeva: «E che mi devo mettere un’estranea in casa?». Battuta che è una sintesi perfetta dell’ideologia mammista. La mamma è sempre la grande madre junghiana, e quindi può essere anche la moglie: Sordi è un marito adultero nel Il seduttore (1954), ne La bella di Roma (1955), ne I pappagalli (1955), che poi si rifugia nel calore uterino della moglie. Ma la madre è anche una grande madre simbolica, che può essere la patria, la famiglia, perfino il cinema.

L’aspetto più interessante del fenomeno Sordi è come sia riuscito a incarnare lo “specchio degli italiani” proprio nel momento in cui gli italiani dovevano specchiarsi in qualcosa che non fosse più il fascismo. Pur non affrontando quasi mai in modo diretto temi politici nei suoi film e nelle sue dichiarazioni pubbliche – Palmiro Togliatti voleva cooptarlo con il film di Dino Risi Una vita difficile (1961), ma lui si negò –, quello che Sordi ci mostra è come la continuità non conflittuale tra fascismo e repubblica sia riuscita a trovare uno spazio proprio nella trasformazione dei maschi fascisti in una combriccola di vitelloni, di scapoli impenitenti, di bambinoni. Vedere i film di Sordi, da questo punto di vista, è come assistere allo spettacolo della crisi del maschio italiano, o meglio arrendersi all’evidenza che la crisi del maschio italiano non si sia mai veramente aperta.

Eppure non si può dire che Sordi non ci provi. Lo fa dichiaratamente, come quando nel 1966 gira il suo secondo film da regista, Scusi, lei è favorevole o contrario?, che sarebbe un film sul divorzio, ma si riduce al solito intrigo di corna: il protagonista è un vitellone, un inguaribile cascamorto, ma sposato. Si chiama Tullio Conforti ed è contrario al divorzio. Tuttavia, vive beatamente separato dalla moglie (Giulietta Masina) e ha avuto tre figli da due donne diverse. Il commendator Conforti è il massimo del Sordi ultragigione: maliardo sul lavoro, nella vita privata un mezzo playboy. In terrazza “ospita” una ragazza bella e giovanissima. E quindi fa il fenomeno con il maggiordomo omosessuale (e inglese), il quale mostra di non apprezzare la ragazza che se ne sta nuda a prendere il sole: “Mi fa senso, ma in un altro senso però”, gli ribatte Conforti. Se il maggiordomo gli ricorda che “non è più un ragazzo”, lui si pettina e si imbelletta, rifiuta il predicozzo, rivendica l’energia del suo fisico e spiega: “Il pensiero di avere una bambina nuda sopra il mio capo mi fa fremere”. Un Humbert Humbert all’amatriciana ma, più che predatorio, asessualizzato, un voyeur di mezz’età.

In Lo scopone scientifico di Luigi Comencini (1972) o in un Un borghese piccolo piccolo (1977) si svela in modo plateale la rabbia dietro la vanteria e l’impotenza, in maniera simile ad Amore mio aiutami. Entrambi i film sono sempre stati letti come racconti sulla lotta di classe e sull’emancipazione impossibile di proletari e piccolo borghesi, che restano tragicamente inchiodati al loro destino, due dolorose commedie all’italiana uscite durante i conflitti sociali degli anni Settanta. Ma se li guardiamo con l’occhio della critica di genere, viene fuori qualcosa di più perturbante. L’educazione che nel Borghese piccolo piccolo l’impiegato Giovanni Vivaldi (Alberto Sordi) impartisce al figlio imbelle Mario è una summa di paternalismo, opportunismo e mammismo. Cerca di difenderlo dalla vita, lo raccomanda, si adegua all’arrivismo della massoneria (anche qui tutti maschi, che più che provare a fare carriera sembrano dilettarsi in un rito adolescenziale), finché nella scena più drammatica questo conflitto diventa esplosivo.

Giovanni e Mario stanno camminando per strada, davanti a loro c’è una ragazza che i due vedono di spalle e che cammina a passo spedito con un trench. Il padre prende il figlio sottobraccio e lo erudisce: “Le occasioni a te, Mario, ti capiteranno, quando io c’avevo l’età tua… Vedi Mario, quel tipo di ragazze lì, quelle con l’aria un po’ perbene, ecco quelle so’ sospette… bisogna stare molto attenti… sono proprio quelle che ti incastrano… le ragazze bisogna conoscerle… conoscerle profondamente… perché se no che fai… te metti a casa n’estranea?… prendi quella ragazza lì… è carina… a te ti piace lo so… ma chi è?… chi la conosce?”. A quel punto si sente una scarica di mitra; la ragazza si volta di scatto, è effettivamente bellissima, e urla, scioccata da quello che noi spettatori ancora non vediamo: Mario è stato freddato da un colpo vagante partito da un commando che sta assaltando una banca. Giovanni lì per lì non realizza nemmeno, si chiede che è successo. Poi guarda a terra, e c’è il figlio steso in una pozza di sangue. L’inquadratura prima si alza: un quadro in cui Giovanni si china sul figlio come una Pietà tutta al maschile, la ragazza distante. Poi lei si avvicina e la camera si concentra sul volto spento di Mario, a terra; vicino a lui si vedono solo gli stivali della donna.

Nel Borghese piccolo piccolo si compie una trasfigurazione che non vedremo più. Il personaggio classico di Sordi – impacciato e opportunista, canagliesco e sarcastico, quello degli anni Cinquanta e Sessanta – diventa livoroso, crudele, bilioso. Monicelli o Sonego non riescono più a cucire sul corpo animalesco di Sordi un personaggio maschile fuori tempo ma simpatico. Più va avanti con i film e più Sordi deve confrontarsi con una società che si emancipa, in cui le donne hanno ruoli da protagoniste, in cui la liberazione sessuale non è un precipizio da cui stare alla larga, ma mostra in modo più smaccato una nevrosi culturale e sociale: i suoi personaggi somigliano sempre di più a falene imprigionate in un complesso materno, ma non fanno ridere più.

Dagli anni Ottanta in poi la carriera di Sordi rimuoverà quasi completamente quest’aspetto perturbante, non riuscendo più a gestirlo – il fallimento più clamoroso è proprio il film del 1980 Io e Caterina. La sua recitazione si farà più bidimensionale, cartoonesca. Con Il marchese del Grillo (1981), Il tassinaro (1983), Una botta di vita (1988) e Nestore. L’ultima corsa (1994) Sordi diventa sempre più sé stesso: fiero di essere un italiano antimoderno, incolto, un’anticipazione dell’orgoglio populista, anche se ancora bonario. Per questo può essere utile capire il passaggio dagli anni Settanta agli Ottanta, quando i mostri della commedia all’italiana (Sordi, Manfredi, Gassman…) passarono il testimone ai nuovi comici: Troisi, Nuti, Nichetti, Verdone… In una recente intervista Carlo Verdone sintetizzava cos’era cambiato in quel momento: «C’era una società che è stata terremotata dal femminismo». Quanto è durato quel terremoto, quanta emancipazione ha prodotto nell’immaginario, e quanto backlash c’è stato negli ultimi anni anche nella comicità e nel cinema italiano?

È una domanda che possiamo lasciare aperta, ma a cui possiamo cominciare a rispondere andando a vedere o rivedere proprio il film che nella carriera di Sordi mette più di altri in scena questa patologica nevrosi dei maschi italiani: Io e Caterina, regia dello stesso Sordi, sceneggiatura rinnegata di Rodolfo Sonego. Io e Caterina è un inno alla misoginia, un film oggi imbarazzante, in cui il protagonista – l’imprenditore Enrico Melotti, volgare maschilista – pensa di risolvere i problemi di un articolato mondo femminile troppo esigente con una robot che fa la domestica, Caterina, finché anche lei comincia a fare le bizze per la gelosia. L’ultima scena è una cena romantica solitaria. Il robot Caterina sembra trovare pace rimanendo in silenzio vicino alla tavola, in attesa di ordini. Sordi è solo. Un personaggio tragico. Perché pensiamo che faccia ancora ridere?

Grazie a Liborio Conca per la collaborazione.

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