di Roberto Rossini (huffingtonpost.it, 14 marzo 2017)
I partiti della Prima Repubblica facevano formazione per creare classe dirigente. Scuole, federazioni e gruppi giovanili: forme di partecipazione ad attività che andavano dalla semplice presenza ai convegni fino all’approfondimento dottrinario. Basta leggere le vite dei presidenti delle principali istituzioni italiane per capire che il ruolo in politica non era che un passaggio di un più o meno strutturato cursus honorum.È così che ogni partito si è formato un serbatoio “interno” di uomini, di riserve capaci di far politica perché per anni essi avevano frequentato la politica e imparato a pensare politicamente. L’educazione alla politica era un percorso lento, un passo dopo l’altro. Poi gli anni Novanta hanno cambiato il vento, e i politici sono diventati tutti manigoldi, perditempo e incapaci: è tutto “un magna magna generale”. Per estensione l’appartenenza e la formazione alla politica sono dunque diventate inutili, se non dannose. Ancora, mi è capitato di sentire qualche candidato vantarsi di non avere mai avuto in tasca una tessera di partito, di non essersi mai interessato di politica, vantando un’onestà figlia solo della non appartenenza a qualche partito. Nessun cenno alla preparazione, alla formazione politica, lasciata ormai a un’attività volontaria o a una pratica in tempo reale, da esercitare semmai quando eletti presidenti di qualche importante assise. Peccato che l’onestà non sia un requisito della politica, ma un prerequisito di qualunque attività… Ma se allora i partiti non producono più formazione, quali sono i vivai dai quali essi possono attingere classe dirigente? Come si fa educazione politica? Ci si sposta “fuori”, nella società civile. E la parola che oggi meglio rappresenta questa tendenza è scouting. La politica fa scouting per scegliere i migliori, come in un talent. A seconda della tendenza politica, i partiti si orienteranno verso il mondo social oppure verso il mondo dell’impresa e delle professioni o magari pure verso il mondo virtuale dei personaggi della tv o del web; i docenti universitari vanno bene per sinistra e destra. In questo modo si costruisce la “squadra”: lo sport metafora della politica. Si scende in campo, si fa scouting per fare una grande squadra che vince. Yes, we can. Ma va bene anche così. In assenza di validi meccanismi alternativi (ormai le scuole di partito appaiono dei residuati solidi incompatibili con il mondo liquido nel quale navighiamo), e soprattutto in assenza di partiti veri, lo scouting è forse meglio di altre e peggiori cose. Per esempio del casting dove i candidati sono scelti per interpretare una parte, un copione: e qui basta una bella faccia, un curriculum decente e l’apprendimento di alcuni mantra. D’altra parte se la politica è narrazione, il casting è il suo corollario. Certo non è in discussione chi fa il casting e chi scrive il copione. Lo scouting e il casting rischiano di sorpassare l’idea di educazione politica e quindi di non considerare che l’esercizio della politica è migliore se si sviluppano due piccole attitudini. La prima è che per ogni persona impegnata in politica una parte importante è conoscere storie, biografie, persone, certi luoghi, la natura di alcune cose: tutte cose che richiedono tempo e che si fanno conoscere meglio quando non si è obbligati a farlo a causa del ruolo. La seconda è che fare politica è un’arte complessa e richiede l’attitudine a saper mediare con intelligenza tra l’essere della realtà e il dover essere dei modelli e dei principi. Perché è da questa tensione che nasce la responsabilità della politica. Ma anche quell’atteggiamento attento e curioso verso le tendenze e i dettagli che ogni tempo esprime e che ci aiuta a vedere la realtà. Così era Aldo Moro, che vogliamo ricordare esattamente in questi giorni: gli capitava di andare ad ascoltare convegni e incontri mettendosi di nascosto nelle ultime file. Solo per ascoltare, capire, comprendere i segni. Poi va bene tutto, scouting, casting e quant’altro: ma uno come Aldo Moro, lo avrebbero davvero preso nel cast?