di Lorenzo Ciofani (cinematografo.it, 23 gennaio 2024)
Norman Jewison non ha mai vinto un Oscar. In compenso, l’Academy gli ha conferito il Premio alla memoria Irving G. Thalberg, che consiste in un busto del leggendario direttore della Divisione Produzione della Mgm e celebra i “produttori creativi, i cui lavori riflettono delle continue produzioni cinematografiche di alto livello”. Questo perché Jewison, nato a Toronto nel 1927 e morto sabato 20 gennaio a 97 anni, i suoi film li ha diretti e prodotti, in un paio di occasioni anche scritti.
Se ciò l’abbia reso un autore non sta a noi dirlo, anche perché non rilasciamo patenti. Ma è evidente quanto Jewison abbia prodotto – nel senso più largo del termine: immaginare una storia, realizzarla, investirci un capitale – un cinema che si è incastonato nell’immaginario, intercettando le tensioni sociali e raccontando i mutamenti di un Paese.
Pensiamo a La calda notte dell’ispettore Tibbs (banale traduzione del più evocativo In the Heat of the Night, 1967): il genere poliziesco (l’omicidio di un industriale nel Mississippi) non è solo un incalzante meccanismo narrativo ma anche strumento per sondare la profondità del razzismo (il rozzo capo della polizia locale fa arrestare tutti i sospettati, compreso un elegante nero che si scopre essere l’ispettore federale incaricato delle indagini: i due devono superare le reciproche diffidenze e lavorare insieme alla risoluzione del caso). È ormai un classico, tra i primi film a colori con un protagonista afroamericano, uscito mentre si affermavano i movimenti per i diritti civili e pochi mesi prima dell’uccisione di Martin Luther King. Ed è un po’ il manifesto di un regista che ha declinato l’impegno civile nei termini di un cinema se non popolare perlomeno accessibile, che tende la mano allo spettatore e lo introduce in vicende allegoriche in grado di smuovere le coscienze.
Da Tibbs in poi, Jewison diventa produttore di sé stesso, dopo una prima esperienza nel 1966 con Arrivano i russi, arrivano i russi, punto di raccordo – insieme al magnifico Cincinnati Kid (1965), in cui subentra all’ingestibile Sam Peckinpah, vera e propria prova di maturità per una sorprendente complessità estetica, tematica e narrativa – tra le commedie degli inizi (come Quel certo non so che e Non mandarmi fiori con Doris Day) e una prospettiva meno occasionale, dato che riconfigura le isterie e le fobie del pericolo sovietico in una satira sulla Guerra Fredda destinata a concludersi con un’amicizia fra i marinai russi e i cittadini di un’isola americana.
E questo cinema progressista, magari non particolarmente militante ma ben calibrato su un pubblico largo, si riverbera anche in due grandi successi diventati oggi longseller come Il violinista sul tetto (1971), che fa intrattenimento musicale parlando di antisemitismo, e soprattutto Jesus Christ Superstar (1973), una spettacolare narrazione della Passione di Cristo in cui la figura di Gesù trova un’umanità sì influenzata dalla controcultura ma così ben radicata da aver colpito anche Paolo VI.
Il tema del razzismo torna in Storia di un soldato (1984), adattamento di un testo teatrale che Jewison mise su con qualche difficoltà e grande tenacia rifiutando molti copioni action, e in Hurricane (1999), biopic su Rubin Carter che oltre a essere un one man show di Denzel Washington è uno spaccato sulle disparità tra bianchi e neri in un’America segregazionista. Jewison ha portato avanti l’idea di un cinema che punta il dito contro le storture del sistema (in questo senso il suo avatar è l’avvocato di … e giustizia per tutti, 1979), senza aver paura della retorica né del didascalismo anche per una solida padronanza dei mezzi: F.I.S.T. (1978) sulle connivenze mafiose del sindacalista Jimmy Hoffa, Vietnam – Verità da dimenticare (1989) sullo stress post-traumatico dei veterani, I soldi degli altri (1991) contro gli eccessi del liberalismo.
Eclettico se non proprio scatenato nel saltare da un genere all’altro, Jewison trova il capolavoro con Rollerball (1975), variazione distopica (futuro oggi già passato, visto che si parlava del 2018) del sentimento paranoico tipico della New Hollywood, in cui uno sport violentissimo assolve alla funzione del panem et circenses. E non si è fatto mancare niente, dall’avvincente heist Il caso Thomas Crown (1968) che contiene alcune delle immagini più bollenti del cinema americano (complici il montaggio cui mise mano anche Hal Ashby, la fotografia di Haskell Wexler e le musiche di Michel Legrand) al bizzarro e irresistibile giallo tra spirito e spiritualità Agnese di Dio (1985) fino alla commedia romantica Stregata dalla Luna (1987) che fa ironia sugli emigrati italoamericani senza scadere nei luoghi comuni. Jewison era in pensione da ormai un ventennio, ma il suo cinema ci appare oggi assolutamente contemporaneo.