di Guia Soncini (linkiesta.it, 21 agosto 2024)
La più saggia delle mie amiche, domenica, mi ha scritto: «Ci siamo tolte dalle palle anche l’ultimo stronzo dotato di stile. Ora solo stronzi semplici. Con la panza, talvolta». Mi è un po’ spiaciuto che il mio articolo su Alain Delon fosse già uscito, perché quel messaggio era proprio il coccodrillo perfettissimo. Ancora non sapevo d’essermi sbagliata. E ancora non avevo visto il contraccolpo.
Che m’ero sbagliata è stato chiaro lunedì mattina. Alain Delon occupava le prime pagine dei quotidiani più che se fosse, chessò, morto Chalamet o come diavolo si chiama quell’attor giovane sexy come un comodino. Con foto da giovane (Corriere) o da vecchio (Repubblica), quindi con un’escursione temporale da “mi sento male, non respiro, rianimatemi” a “è ancora un figo colossale” – ma sempre in quota Mastroianni. Era per quello che m’ero sbagliata, domenica: perché non avevo tenuto conto della quota Mastroianni, sebbene l’avessi raccontata di recente. Non avevo tenuto conto che per stare bello largo in prima pagina devi essere famoso di quella fama che era possibile ottenere solo quando esisteva la cultura popolare, e fotogenico di quella fotogenia che fa fermare lo sguardo come i giornali non sono più abituati a fare.
Quando sono usciti i giornali di lunedì, l’Internet aveva già iniziato da quasi ventiquattr’ore a polemizzare (una domenica d’agosto, capirai: la gente va in cerca di dopamina i feriali di novembre, figuriamoci se muori in un festivo estivo). Qualcuno aveva persino ripescato un paio di minuti andati alla tele nel 2003, quando l’allora giovane e rampante Marc-Olivier Fogiel aveva invitato Delon e poi, eretto nel suo schienadrittismo, gli aveva chiesto conto della sua amicizia con Jean-Marie Le Pen. Quello aveva spiegato che c’erano cose che condivideva e cose che no, ma comunque erano amici, roba normale; ma figuriamoci: di fronte aveva un trentenne, e un trentenne che non aveva neanche Instagram su cui sfogare il proprio assembleadistitutismo.
Era dovuto intervenire Nicolas Sarkozy, anche lui ospite, e abitante come il presidente Bartlet nel mondo della politica professionale e non in quello dei capricci infantili, a spiegare che non è che i cinque milioni e mezzo di votanti per Le Pen potessero essere considerati cinque milioni e mezzo di fascisti cui abbaiare in faccia “Vergogna!” come si fosse il Gabibbo. Il programma si chiamava On ne peut pas plaire à tout le monde, Non si può piacere a tutti, e il pubblico dell’Internet, che si caratterizza per gusti sofisticati e intelletto articolato, linkava apparentemente ignaro dell’ironia le immagini come fossero state la prova che è morto uno schifoso e non avrà le mie lacrime (il pubblico dell’Internet è molto convinto che il suo consenso sia importante).
Ovviamente il delirio di “era uno schifoso, di destra nonché maschilista nonché violento” (e nessuno che elencasse l’unico difetto davvero imperdonabile: gli piacevano i cani) non poteva stare da una sola parte: prima regola di questo secolo è che a ogni azione imbecille risponde una reazione ancora più imbecille. Da una parte, c’era la sinistra che prendeva i cuoricini facili e la dopamina a secchiate dando a uno di destra del fascista; dall’altra, la destra cui non pareva vero che ci fosse un figo da iscrivere alla propria corrente.
Prime pagine di lunedì. «Il “saltimbanco” della destra» (titolo del Giornale: ho un debole per quando mettono le virgolette a una parola imprecisa perché gli fa fatica pensare a quella precisa). «Alain Delon, “l’uomo più bello del mondo” che spiazzava sinistra e radical chic» (titolo della Verità, in cui le virgolette non so cosa rappresentino: forse la titolista è della corrente Paul Newman). «Il Delon fieramente di destra che non vi racconteranno» (titolo di Libero, dove, beati loro, non si sono accorti che quelli dall’altra parte avevano passato la domenica a non fare altro che ricordarci che, ohibò, Delon era di destra).
Naturalmente gli-altri-non-ve-lo-dicono è un tic uguale da tutte le parti, e quindi gli indignati di sinistra accusavano non si sa bene chi (i poteri deboli? la pellicceria Annabella di cui Alain fu testimonial? i venditori di cappotti cammello?) di tenere nascosta la destrità di Delon. Devo dire, nell’abituale delirio collettivo, questa volta la sinistra e la destra mi sono parse accomunate da uno sconcerto comprensibile.
La sinistra è abituata ad avere tutti gli artisti presentabili dalla sua parte, anche in una maniera stolida e rivendicando liberazione delle donne nel far vedere il culo, in un Paese in cui far vedere il culo ha sempre costituito una percentuale dell’occupazione femminile assai superiore a fare la chirurga o l’astronauta; anche con istanze non sveglissime, ma sempre e comunque di sinistra. La destra è abituata ad avere dalla sua solo personaggi variamente disperati, culturalmente impresentabili, minori nella carriera e irrilevanti nell’aspetto. A parte Barbareschi, non mi viene in mente un figo di destra che sia uno. E anche Barbareschi, ecco, bell’uomo, ma di Delon – di fighi assoluti e incontrovertibili – non ce ne sono molti, e quei pochi (Robert Redford, Sean Connery, Marcello Mastroianni) non solo si sono sempre ben guardati dal professare simpatie di destra ma anzi hanno sempre espresso idee di sinistra (parlandone da viva).
Ma, proprio quando sembrava che l’annettersi politicamente il defunto fosse il picco di stupidità della giornata, è arrivato un professore universitario. Da quando ci sono i social, e nove volte su dieci quando uno scrive una cosa da farti mungere le ginocchia dalla stupidità clicchi sulla bio e c’è una cattedra universitaria, io ringrazio ogni giorno di non aver avuto figli, perché l’idea di pagargli gli studi in un mondo in cui i docenti universitari capiscono il mondo meno del tassista medio mi farebbe innervosire moltissimo.
Comunque, arriva questo signore e spiega che per la sua generazione Delon era irrilevante. Si dichiara nato nel 1968, cioè esattamente a metà tra Il Gattopardo e La prima notte di quiete. Sarà cresciuto in un orfanotrofio gestito da maschi, non avrà mai avuto una mamma, una zia, una balia che si strizzasse le mutande per Delon. Oppure è ormai così pervaso di presentismo da aver rimosso gli anni di formazione di noialtri del Novecento, quando ciò che piaceva ai grandi non passava sulle nostre teste ignare. Nella trickle-down economy dei consumi popolari di allora, la vita sentimentale di Carolina di Monaco impregnava le mie giornate anche se i rotocalchi su cui leggerne li comprava mia nonna. Il professore no, il professore era impermeabile all’esistenza di quello che era l’uomo più bello del mondo nei suoi anni di formazione (e che anche negli anni successivi non ebbe moltissimi rivali).
Essendo Delon irrilevante, ci spiega l’uomo al quale le tasse di qualcuno pagano lo stipendio, essendo che «mio figlio e quelli della Gen Z neanche sanno chi fosse», i giornali sono fallimentari a metterlo in prima pagina, sono residuati bellici per vecchi babbioni. Me lo vedo, il prof col cappellino con la visiera portato storto per arginare il terrore che il figlio gli dica “boomer”, che invoca un tiktoker in prima pagina al posto di Delon. Spero che domenica avesse comprato Repubblica, il cui inserto culturale dedicava una pagina che immagino lettissima da quelli come lui, quelli che pensano che l’attualità di TikTok sia culturalmente più rilevante della storia del cinema.
È una bella gara di demenza, l’indotto della morte di Delon, però io tra il valutare una leggenda coi parametri con cui giudicheresti un sottosegretario, e lo squittire “ma è un argomento da vecchi” (è una citazione del personaggio di Stefania Sandrelli in La terrazza: lo preciso perché è un film del 1980, e sono preoccupatissima che la generazione zeta, qualunque cosa essa sia, si spaventi del riferimento ignoto), ecco, tra questi due mali del nostro secolo io scelgo di occuparmi del primo.
Non perché non sia grave che i miei coetanei siano una banda di rincoglioniti che hanno come massimo timore diventare i loro genitori, quelli col loden che noialtri chiamavamo “matusa”, mentre guardaci noi, come siamo moderni, sessant’anni e ancora le magliettecollescritte: nessuno ci dirà boomer, raga. Al contrario: perché quella lì è una battaglia ormai persa. Invece quella perché le leggende vengano considerate tali al di là dei loro convincimenti politici anche nell’epoca in cui dichiariamo l’antifascismo nella bio social, quella perché Alain Delon abbia diritto a non essere oggetto del dibattito di cui è oggetto ogni Arianna Meloni del mondo, quella per cui essere un figo ed essere un sottosegretario sono due mestieri diversi, quella è una battaglia che non sono disposta a perdere.