di Francesco Cundari (linkiesta.it, 16 novembre 2020)
Joe Biden ha preso oltre cinque milioni e mezzo di voti in più e ha vinto in quasi tutti gli Stati in bilico, compresi quelli governati dai repubblicani, che hanno garantito la correttezza del voto. Ciò nonostante non solo Donald Trump, ma anche i vertici del suo partito, con pochissime eccezioni, continuano a parlare di brogli, lanciando accuse infondate, inventando e diffondendo bufale tanto incredibili quanto pericolose – tipo quella del software mangia-voti – e rifiutandosi di riconoscere la sconfitta. Il carattere assolutamente indubitabile dell’esito elettorale, assicurato dal distacco a prova di riconteggi accumulato in gran parte degli Stati chiave, ha alimentato un atteggiamento di superiore condiscendenza nei confronti delle affermazioni e dei gesti sempre più gravi provenienti dalla Casa Bianca.
«Qual è il problema nell’assecondarlo per un po’?» ha detto un anonimo repubblicano al Washington Post. «Nessuno pensa seriamente che i risultati cambieranno. È andato a giocare a golf questo fine settimana. Non sta mica organizzando un golpe per impedire a Joe Biden di prendere la guida del Paese il 20 gennaio. Sta twittando a proposito di qualche causa legale, quelle cause finiranno nel nulla, quindi twitterà un altro po’ su come le elezioni sono state rubate, e poi se ne andrà». Ma non è così semplice. Anzi, direi che il problema principale è proprio la scelta di assecondarlo compiuta dal partito, con il valido aiuto della solita schiera di avvelenatori di pozzi professionali nel mondo dell’informazione e della disinformazione. Tanto che secondo un sondaggio il 70 per cento degli elettori repubblicani – il 70 per cento! – è realmente convinto che le elezioni siano state truccate. E tutto questo con un distacco di oltre cinque milioni di voti.
Ma cosa sarebbe successo se l’esito fosse stato davvero sul filo, se Biden avesse vinto solo per pochi voti? Ecco cosa dovremmo domandarci: cosa sarebbe accaduto – e dunque cosa potrebbe accadere domani – dinanzi a un risultato appena meno netto. Da questo punto di vista, il pericolo che tanti tendono a sottovalutare è dato dall’eventualità niente affatto remota che stavolta sia la farsa a precedere la tragedia, e le pagliacciate di oggi possano apparire domani come la prova generale di una crisi democratica ben più grave. L’indegno spettacolo offerto da Trump è, infatti, molto più di un semplice colpo di testa. E forse persino di quella “Weimarizzazione” degli Stati Uniti di cui parla Andrew Sullivan. È una prova del fuoco non solo per i sostenitori e collaboratori del populista in chief alla Casa Bianca, ma anche per i suoi epigoni nel resto del mondo. È un formidabile test sulla qualità degli anticorpi in circolo nelle nostre democrazie. E dobbiamo dirci subito che il test, almeno finora, non ha dato esiti incoraggianti.
Certamente non in Italia, se persino dinanzi a risultati elettorali così clamorosamente evidenti Matteo Salvini e Giorgia Meloni non hanno esitato a dare pubblicamente credito alle ridicole menzogne trumpiane. Con il primo che ha rilanciato la bufala secondo cui in alcune Contee ci sarebbero stati «più voti che elettori» (dichiarazioni per cui è finito sulle pagine dell’Independent come «la cheerleader italiana di Trump»), e con la seconda che ancora l’11 novembre dichiarava testualmente a Skytg24: «Quando ci sarà la Corte Suprema che ci dirà che c’è un vincitore saremo molto fieri di fare gli auguri di buon lavoro a quel vincitore». Con queste premesse, forse anche noi italiani dovremmo cominciare a nutrire qualche preoccupazione per il futuro. E per il presente, considerando pure l’imbarazzante serie di gaffe, ritardi e resistenze che hanno accompagnato la presa d’atto del risultato elettorale americano da parte del nostro presidente del Consiglio (chiaramente non entusiasta dell’esito, visto anche il suo coinvolgimento nell’oscura vicenda del viaggio in Italia di William Barr).
D’altra parte, sul terreno della politica internazionale e della difesa della democrazia liberale, è difficile non vedere la consonanza tra i diversi rappresentanti del populismo italiano, affratellati non soltanto dalla simpatia per Trump e dalla comune passione per le teorie della cospirazione (Bibbiano, in fondo, è la nostra QAnon). Come dimostrano, ad esempio, le ambiguità di Giuseppe Conte da un lato e dall’altro l’aperto sostegno di Salvini e Meloni alla battaglia dei populisti ungheresi e polacchi contro la decisione europea di vincolare i fondi per la ricostruzione post-Covid al rispetto delle più elementari regole dello Stato di diritto. In altre parole, se davvero lo spettacolo attualmente in scena a Washington è l’anteprima di una nuova normalità, in cui neanche il riconoscimento dell’esito del voto, fondamento primo di qualsiasi sistema democratico, può essere più dato per scontato (come la divisione dei poteri e tutti i cardini dello Stato di diritto), ebbene, l’Italia sembra avere tutte le carte in regola per ritrovarsi presto tra i Paesi all’avanguardia di questa nuova tendenza. Non è un primato di cui andare fieri.