di Dino Cofrancesco (huffingtonpost.it, 27 marzo 2021)
Commentando il mio articolo sulla Norimberga che ci è mancata, un amico storico mi ha fatto notare che i suoi colleghi “militanti” non potevano non rammaricarsi del mancato processo dal momento che, in dissenso con Hannah Arendt e con Renzo De Felice, vedevano nel fascismo un regime totalitario diverso ma della stessa species del nazismo. Se il totalitarismo tedesco è stato portato davanti a un Tribunale Internazionale (peraltro, formato da soli vincitori), come mai per quello italiano non si è stati neppure capaci di procedere a una blanda epurazione delle figure più compromesse con la politica del famigerato ventennio? La tesi del totalitarismo fascista è stata sostenuta, in molti saggi, da un ex allievo di Renzo De Felice (quando si dice l’ironia della sorte!), lo “storico di fama internazionale, professore emerito dell’Università di Roma La Sapienza e socio dell’Accademia Nazionale dei Lincei” Emilio Gentile, che non perde occasione per ribadirla.Persino scrivendo del principe Antonio de Curtis ― Caporali tanti, uomini pochissimi. La storia secondo Totò, Ed. Laterza — Gentile ci ha tenuto a sottolineare che Totò venne riconosciuto dal padre, marchese de Curtis, nel 1928, l’anno prima delle elezioni politiche per la nuova Camera fascista, quando «un plebiscito popolare consacrò l’avvenuta trasformazione del regime parlamentare in regime totalitario», non dissimile, quindi, dal nazismo e dal comunismo stalinista. Un regime totalitario sui generis se Totò nelle sue riviste (gli anni Trenta e Quaranta lo consacrarono attore teatrale eccelso, un giudizio condiviso anche dai futuri detrattori del Totò cinematografico) poteva infilare qualche battuta contro il potere — ad esempio, l’obbligo di dire Galivoi invece di Galilei dopo l’eliminazione del poco romano Lei — che Mussolini, su consiglio di Leopoldo Zurlo, lasciava correre, per non dare «la sensazione di essere sempre lì col fucile spianato» (una preoccupazione, si ammetterà, estranea ai veri capi totalitari come Hitler e a Stalin).
Il titolo del libro di Emilio Gentile parafrasa quello del celeberrimo film di Camillo Mastrocinque, Siamo uomini o caporali (1955), ma la classificazione dell’umanità in sfruttati (gli uomini) e sfruttatori (i caporali) inverte il rapporto tra gli uni e gli altri. Nella cupa visione pessimistica di Totò, infatti, ad essere pochi sono i “fessi” e ad essere tanti i “furbi”. È un’antropologia filosofica alla quale vengono dedicate molte pagine. «Il principe Antonio de Curtis aveva una profonda consapevolezza della tragicità della Storia, maturata nel corso degli anni attraverso l’esperienza e l’osservazione della Storia in corso […]. La ripetizione della Storia non era intesa dal principe come effettivo ripetersi di accadimenti, bensì come immutabilità della condizione umana, determinata dalla natura stessa dell’uomo, e dalle inevitabili disuguaglianze della vita».
Resto perplesso. Che Totò, come capita non di rado ai grandi comici di tutti i tempi, avesse uno humor tetro e che facesse ridere solo al teatro o al cinema, è risaputo ma c’è pessimismo e pessimismo e quello di Totò andava forse spiegato all’interno di un’analisi storica e culturale che nel saggio di Gentile lascia a desiderare. Eluderla richiamando antichi simboli biblici può ingannare solo i superficiali recensori che hanno parlato di Caporali tanti, uomini pochissimi in termini entusiastici — e non solo sui giornali di sinistra ma, altresì, su quelli di destra: vedi Pedro Armocida sul Giornale e Francesco Specchia su Libero Quotidiano. I recensori non si sono accorti di trovarsi dinanzi a un costume della mente molto diffuso nel mainstream culturale italico e che potrebbe sintetizzarsi con le parole: “non è dei nostri ma non è neppure dei vostri”. Un pensatore, un artista, un poeta, la cui grandezza sarebbe stolto negare, in questo stile di pensiero, possono pure definirsi conservatori ma in un senso profondamente diverso dal conservatorismo della destra.
È non poco significativo, a tal proposito, il ritratto spirituale che Gentile fa di Totò «aristocratico plebeo o plebeo aristocratico, apolitico come si definiva, né di destra né di sinistra, e neppure di centro, Antonio/Totò non era comunque un qualunquista. Se un ismo gli si vuole appiccicare forse sarebbe appropriato quello del “qoheletismo”, e considerarlo quindi un “qoheletista”, cioè seguace, probabilmente inconsapevole, del sapiente biblico Qohélet, colui che dice “Vanità delle vanità, tutto è vanità. Tutto dipende dal destino e dal caso. Una è la sorte per i figli dell’uomo e per le bestie: la morte. Tutto va a un’unica fossa”». Ma c’era proprio bisogno di scomodare l’Ecclesiaste in una cultura (intesa anche in senso antropologico) come la nostra, che ha prodotto i Giacomo Leopardi e i Giuseppe Gioacchino Belli? Perché pensare al vanitas vanitatum di Qohélet e non a La ginestra, oltretutto composta nei luoghi che diedero i natali a Totò? «Questi campi cosparsi / di ceneri infeconde, e ricoperti / dell’impietrata lava, / fûr liete ville […] Or tutto intorno / una ruina involve».
Gentile non si stanca di ripetere che Totò «non era comunque un qualunquista», che la sua visione della vita e della Storia era «qualcosa di più di una filastrocca qualunquista» e solo in una pagina è disposto ad ammettere che «sull’atteggiamento di Antonio verso gli onorevoli, fin dagli esordi della democrazia repubblicana, può aver influito il disprezzo per i politici di professione diffuso dal settimanale L’Uomo qualunque, fondato alla fine del 1944 nella Roma liberata da Guglielmo Giannini». In realtà, a parte l’amicizia personale che risaliva almeno a Fermo con le mani (1937), il film diretto da Gero Zambuto di cui Giannini fu soggettista e sceneggiatore, non erano poche le affinità profonde che legavano Totò al difensore degli Uccù (UQ: Uomini Qualunque). Giannini era un personaggio complesso, tormentato, che non era mai riuscito a elaborare il lutto della perdita del figlio Mario nell’insana guerra fascista, e il suo movimento fu un episodio la cui rilevanza etico-politica non è sfuggita a filosofi come Augusto Del Noce e a storici come Giovanni Orsina.
Il monologo di Totò in Siamo uomini o caporali ― «La categoria degli uomini è la maggioranza, la categoria dei caporali, per fortuna, è la minoranza. Gli uomini sono quegli esseri costretti a lavorare tutta la vita come bestie, senza vedere mai un raggio di Sole, senza la minima soddisfazione, sempre nel l’ombra grigia di un’esistenza grama; i caporali sono appunto coloro che tiranneggiano, che sfruttano, che maltrattano, che umiliano. Questi esseri invasati dalla loro bramosia di guadagno li troviamo sempre a galla, sempre al posto di comando […], sempre pronti a vessare il povero uomo qualunque» ― non a caso sembra tratto da La Folla di Giannini (Ed. Atlantica, 1945). Dove si legge che «i Capi al Governo che vivono di tasse non differiscono dai Capi industriali agricoli e commerciali che vivono di dividendi, o dai Capi nelle organizzazioni operaie contadine e impiegatizie che vivono di quote. È sempre la Folla che li mantiene tutti: essi lottano fra loro e fanno lottare le rispettive sezioni di Folla l’una contro l’altra al solo scopo di render necessaria la loro presenza ai posti di comando, e cioè alle cariche redditizie che la Folla, sempre più sfruttata e martoriata, fa sempre più ricche di tasse, dividendi e quote».
Gentile, ricordando l’estraneità di Totò (vedi il film Yvonne la Nuit, 1949) al mito patriottico riscoperto durante la Resistenza da comunisti e socialisti (ma davvero?), scrive che «nella Totòstoria d’Italia il patriottismo è assente, come […] sono assenti anche lo Stato e il senso dello Stato». Ma la dissacrazione dello Stato nazionale non trova il suo zenit proprio in Giannini (non a caso tra i primi europeisti)? Ne La Folla si legge che «i Capi, per costringere le Folle a battersi per essi, hanno inventato ed escogitato ogni sorta di mezzi: polizie, tribunali, carceri, plotoni d’esecuzione, disciplina, gerarchia militare. Ma la costrizione materiale basta fino a un certo punto, e così i Capi hanno fatto ricorso a certi speciali mezzi di costrizione spirituale, che agiscono con enorme forza specialmente sull’animo dei giovani, nei quali la generosa inesperienza facilita l’assorbimento delle panzane. Questi miti si presentano sotto i più bei nomi, fra i quali quello di Patria è il più affascinante e sonoro. Ma è sempre un mito. […] Non c’è niente di più falso, e, se qualcosa è mortale sulla terra, l’idea della patria è la più mortale di tutte».
Totò non si espose mai politicamente? A voler prescindere dal «Viva Lauro!» nella trasmissione di Mario Riva, Il Musichiere (siamo nel 1958), il comico nell’aprile del 1947 aveva accompagnato Giannini in Sicilia in occasione delle prime amministrative regionali dell’isola. Ebbero, lo racconta Pietrangelo Buttafuoco, un’accoglienza trionfale: si recò, tra gli altri, a salutarli Giuseppe Tomasi di Lampedusa e, nella mitica libreria Sciascia di Caltanissetta, Totò volle sedersi sulla poltrona preferita da Vitaliano Brancati. È un momento biografico importante, che da uno storico forse sarebbe dovuto venir ricordato. E invece il ritornello è sempre il presunto equivoco della “critica di sinistra” che, anche dopo Siamo uomini o caporali, «continuò a considerare Totò un personaggio qualunquista». Ma davvero aveva tutti i torti?
Nessuno vuol fare di Totò il portavoce artistico di Guglielmo Giannini. Il Principe è stato il più grande attore comico italiano di tutti i tempi e la sua straordinaria creatività artistica non trova riscontri. Una maschera eterna come quelle di Arlecchino e di Pulcinella ma, rispetto ad esse, con una profondità “teoretica” e una galleria di antenati — dal Ruzzante al Belli — che richiamano la comicità autentica che, quando è davvero grande, è permeata di tragicità, come ben vide Benedetto Croce. Ogni poesia, però, ha una poetica e la seconda non è sempre la zavorra intellettualistica della prima, giacché spesso è la legna che viene bruciata nel rogo della grande arte. La filosofia qualunquistica non è una collanina sostanzialmente irrilevante portata da Totò, ma è qualcosa che se non esaurisce certo ci aiuta a comprenderne il genio.