di Teresa Marchesi (huffingtonpost.it, 8 maggio 2020)
In tempi di astinenza forzata – e planetaria – dalle sale cinematografiche, non può sorprendere che su Netflix spopoli la mitologia della Hollywood dei tempi d’oro, rivista e corretta però in chiave antiomofoba, antirazzista e femminista dalla miniserie Hollywood. Creata con Ian Brennan da uno dei re Mida della produzione seriale corrente, Ryan Murphy, questa volenterosa fiaba revisionista fa leva su quel “what if” (e se?) trionfalmente cavalcato da Quentin Tarantino in Bastardi senza gloria e in C’era una volta… a Hollywood.
Come sarebbe cambiata la Storia se Rock Hudson avesse potuto sbandierare la propria omosessualità, invece di essere costretto a recitare per tutta la vita la parte del sex symbol etero? E se una donna si fosse trovata per avventura al timone di una delle grandi Major? E se un’attrice afroamericana avesse potuto essere scritturata come protagonista di una megaproduzione in tempi in cui il Ku Klux Klan dettava legge? Lo dico subito: Hollywood non è un capolavoro. È ingenuo, semplicistico, spudoratamente buonista e visibilmente girato in economia. Se riesce a commuovere, è perché risarcisce le categorie storicamente e tenacemente discriminate dalla Fabbrica dei Sogni fino a tempi recenti: i gay, la gente di colore, le donne. Crea un universo parallelo in cui ogni rivoluzione è possibile. E lo fa riproponendo coi loro nomi celebrities di culto, da George Cukor (soppiantato da Victor Fleming alla regia di Via col vento) a Cole Porter, da Noel Coward a Henry Willson, onnipotente agente delle star (il “creatore” di Rock Hudson, tra gli altri). Tutti gay, tutti costretti a dissimulare la propria omosessualità, pena l’ostracismo degli Studios.
È la Hollywood tra il 1947 e il 1948, dove l’abuso sessuale su maschi e femmine da parte di produttori e agenti è prassi corrente, e dove Hattie McDaniel ha appena conquistato il primo Oscar “di colore” della Storia per la sua Mami di Via col vento. Ma interpretando una serva, una schiava, e “segregata” dalla platea rigorosamente bianca perfino alla cerimonia di premiazione. Nella serie ha il volto di Queen Latifah. Tarantino ha cancellato in finzione la strage di Beverly Hills, anno 1969? Hollywood, più ambiziosamente, fa giustizia radicalmente, a 360 gradi. Risarcisce nella finzione Anna May Wong, prima star cinoamericana, discriminata scandalosamente dal casting di La buona terra, e le mille vittime oscure tanto di pregiudizi razziali quanto del famigerato Codice Hays. E la dimenticata starlet Peg Entwistle, che nel 1932 si suicidò clamorosamente gettandosi dalla lettera H di Hollywoodland, la scritta che domina(va) Los Angeles.
Trama, interpreti, pettegolezzi “di sponda”: vi lascio il gusto di scoprire in proprio la dreamland, la terra dei sogni reinventata da Ryan Murphy. Nessuno ha scritto e nessuno ha notato però che il perno della vicenda, vero deus ex machina che nella serie – non dico come: no spoiler! – riuscirà a trasformare i sogni in realtà, è un signore realmente esistito. Dietro il personaggio fittizio di Ernest West si cela infatti il vero Scotty Bowers, ex marine specializzato nel business della prostituzione, che nella sua stazione di servizio al 5777 di Hollywood Boulevard prestava giovanotti gagliardi per feste e servizi privati ambosesso. Bowers ha raccontato retroscena insospettabili nella sua autobiografia, Full Service, e nel documentario Scotty and the Secret History of Hollywood. In questa Storia riscritta dalla parte dei vinti Ernie, il benzinaio dei divi suo alter ego, diventa per contrappasso, e a suo modo, l’eroe.
Affamati di cinema come siamo da questo nostro lungo lockdown è bello sognare che la Hollywood del mito abbia avuto il suo “Brokeback Mountain”, la sua liberazione dai tabù, con sessant’anni di anticipo. E, dopotutto, Cantando sotto la pioggia non era già una fiaba revisionista che sovvertiva le regole dello star system per amor di giustizia?