di Guido Vitiello (ilfoglio.it, 22 luglio 2018)
Ci sono polemiche – ormai quasi tutte – in cui, per decenza, non si dovrebbe entrare; e tuttavia si è chiamati, per amore di quella stessa decenza, a osservarle con discrezione dalla soglia, se non altro per invitare i benintenzionati a venir fuori finché sono in tempo. La gazzarra dei giorni scorsi sui Rolex e le magliette rosse è una di queste.Mentre scorrevo distrattamente commenti miserabili di gente miseranda mi è tornata in mente la copertina di un pamphlet di Alessandro Orsini pubblicato quasi dieci anni fa da Rubbettino, Il rivoluzionario benestante. C’era un pugno chiuso alzato con il Rolex al polso. L’antieroe ritratto da Orsini era il privilegiato dal capitalismo che abbraccia, senza rischi per il patrimonio e per la reputazione (che è poi il patrimonio simbolico), la retorica incendiaria dei rivoluzionari, il rictus dell’indignazione permanente e la fantasia della distruzione purificatrice. Ecco, mi sono detto: forse Orsini non sarebbe d’accordo, ma una nuova edizione del pamphlet dovrebbe riconoscere che oggi il rivoluzionario benestante non è più il comunista da salotto o il pariolino in vacanza a Capalbio su cui si appuntano certi sarcasmi ritardatari e grossolani; è, semmai, l’uomo di spettacolo, il filosofo da talk-show, l’opinionista urlatore o il professore ambizioso che cavalca spregiudicatamente l’onda gialloverde con il nobile deretano al caldo e magari, per sicurezza, con i risparmi investiti in titoli di stato stranieri. Il nuovo radical chic è, insomma, il populist kitsch. E non si tratta di ribaltare lo stereotipo per impuntatura sofistica, è anzi una constatazione piuttosto piana dello stato dell’arte: come ieri i ricchi intellettuali newyorkesi descritti da Tom Wolfe facevano a gara per portarsi hippie e Pantere Nere nei loro cocktail, così oggi, per “andare verso il popolo” – nota entità di finzione e di bovarismo ideologico – i populist kitsch si affannano a esser parte in commedia, in una commedia peraltro molto scadente. La scena madre, che solo un nuovo Wolfe o un Arbasino di passaggio avrebbe saputo descrivere con la compassata ferocia stilistica del caso, potemmo vederla a maggio, quando Barbara D’Urso, in abito bianco abbagliante su divano ancora più bianco, dichiarò “Io sono una del popolo” davanti a Di Maio che aveva appena mascariato il presidente. Quello del popolo contro le élite è un altro teatro dei pupi in cui, per decenza, non si dovrebbe mai entrare; e tuttavia anche qui, sempre per amor di decenza, si è spinti ad affacciarsi quanto meno nell’androne per invitare gli uomini di buona volontà ad abbandonare la sala. Non tanto perché, appunto, si tratta di uno psicodramma recitato su un canovaccio fittizio, non esistendo propriamente né il popolo né l’élite; ma perché, se pure accettassimo quel canovaccio puerile, dovremmo presto constatare che lo scontro sanguinoso che ci allestiscono intorno da anni nelle palestre gladiatorie dei talk-show non riguarda affatto i veri reietti, i poveri e gli esclusi, ma reietti di tutt’altro genere. In breve, lo schema popolo-élite è il grimaldello retorico con cui ambiziosissimi intellettuali reietti, studiosi reietti, politici reietti, economisti reietti, giornalisti reietti – o che si credono tali, osteggiati da egemonie anch’esse tutte più o meno immaginarie – si sbracciano per diventare consiglieri del Principe, interpreti del movimento attuale della storia, cantori del nuovo corso. Questa compagnia di giro di risentiti affamati di rivalsa, dall’orgoglio cronicamente umiliato, è una variante contemporanea di quelli che un tempo avremmo chiamato intellettuali déclassés, “paria dell’intelligenza”, intelligencija proletaroide; quasi un cliché sociologico, che si riaffaccia regolarmente quando c’è aria di rivoluzione, reale o anche solo teatrale. Lo psicodramma dozzinale della casta contro il popolo che non arriva a fine mese, dei radical chic buonisti contro i poveri che hanno l’uomo nero sotto casa, e altre fessaggini di cui, per decenza, non si dovrebbe neppure parlare – e di cui, sempre per decenza, si finisce controvoglia per parlare –, serve solo ad accompagnare la loro ascesa. Usciamo tutti dal teatro, prima che suoni l’allarme antincendio.