di Damiano Palano (ilfoglio.it, 27 marzo 2018)
Ormai più di un secolo fa, nel 1911, Robert Michels dava alle stampe il suo libro più famoso, La sociologia del partito politico nella democrazia moderna, destinato ad aprire un intero filone di studi. In quel libro il politologo tedesco illustrava quella che, da allora, sarebbe stata conosciuta nell’ambito delle scienze sociali come la “legge ferrea dell’oligarchia”.Osservando da vicino la fisionomia e il funzionamento del Partito socialdemocratico tedesco (Spd), Michels si rese conto, prima come militante e poi come studioso, di un paradosso inquietante. Proprio quel partito – che, più di ogni altro, aveva inalberato la parola d’ordine dell’uguaglianza e che dichiarava di lottare per la realizzazione di una piena democrazia – al suo interno era tutt’altro che democratico. Dietro un’apparenza democratica, le decisioni venivano infatti sempre prese da una ristretta oligarchia di dirigenti, alcuni dei quali occupavano le cariche di vertice da decenni. Gli iscritti, i militanti e anche buona parte degli stessi funzionari avevano invece un ruolo del tutto marginale. E l’organizzazione assomigliava dunque a una piramide, che concentrava tutto il potere alla sua sommità. Un aspetto cruciale che Michels metteva in luce riguardava soprattutto le cause della formazione dell’oligarchia. Non si trattava infatti di un consapevole tradimento ordito da una “casta” di dirigenti. L’oligarchia nasceva piuttosto da meccanismi oggettivi, legati alle caratteristiche immutabili della “natura umana” e soprattutto alle esigenze della lotta. Il politologo chiamava in causa infatti fattori psicologici, come il “misoneismo” delle masse o la tendenza dei seguaci a venerare i loro capi. Ma sottolineava anche come l’oligarchia scaturisse soprattutto da fattori tecnici. Ogni movimento che puntava a raggiungere degli obiettivi doveva infatti dotarsi di un’organizzazione efficiente, ma questa scelta aveva un costo. La costruzione dell’apparato organizzativo innescava cioè la formazione – più o meno rapida – di una “oligarchia”. In altre parole, proprio l’organizzazione, la divisione del lavoro e la specializzazione dei compiti producevano inevitabilmente un gruppo dirigente sempre più chiuso, il cui obiettivo principale diventava col tempo la propria conservazione. Anche se Michels dimostrava le sue tesi con strumenti che oggi molti politologi considererebbero troppo rudimentali, la “legge ferrea dell’oligarchia” ha trovato in più di un secolo una messe sterminata di conferme. Ed è davvero difficile non pensare alla vecchia lezione dello studioso tedesco leggendo la descrizione che del Movimento 5 stelle ha fatto Davide Casaleggio ai lettori del Washington Post dopo la vittoria del 4 marzo. Rispolverando la retorica degli esordi, l’erede di Gianroberto è tornato infatti a celebrare il partito guidato oggi da Luigi Di Maio come lo strumento con cui il cittadino comune può esprimere “direttamente” la propria voce, esercitare la democrazia diretta consentita da Internet, abbattere le organizzazioni politiche e sociali dominanti. E la piattaforma Rousseau viene esaltata come lo strumento per consentire concretamente l’espressione della “volontà generale del popolo”. Le cose sono invece un po’ diverse, e – seguendo le orme di Michels – si può senz’altro rinvenire sotto gli slogan la realtà di un nucleo che potremmo definire “oligarchico”. Nei suoi quasi dieci anni di vita, nonostante l’obiettivo di realizzare una democrazia diretta capace di sfruttare le nuove potenzialità della Rete, la formazione pentastellata si è infatti trovata alle prese con tutte le insidie della “legge ferrea” individuata da Michels. A ben guardare, non si può però trascurare il fatto che il “non-partito” fondato da Grillo presentava fin dalle origini caratteristiche ambigue. Caratteristiche che lo rendevano, come hanno scritto Luigi Ceccarini e Fabio Bordignon, un attore “ibrido”. Un attore che aveva qualche elemento in comune con i movimenti sociali e con quei partiti (principalmente ambientalisti) che avevano tentato di introdurre meccanismi di controllo della leadership da parte della base. Ma che poteva anche essere considerato come un “partito azienda”. Il M5s nasce infatti come un “non partito”, basato sull’ideale di una sorta di democrazia assoluta e sulla celebrazione delle potenzialità della Rete come strumento per dare forma a una nuova agorà. La sua retorica è contrassegnata da ideali “movimentisti” di orizzontalità e inclusione, e proprio in questo senso viene sostenuta e celebrata la partecipazione “dal basso”. A livello locale effettivamente gli attivisti nelle fasi iniziali si auto-organizzano autonomamente, talvolta persino senza alcuna iscrizione formale. Ma fin dall’inizio è evidente un’anomalia strutturale. Già prima che il Movimento assuma una veste politica, nel 2009, è infatti chiaro che tutto il processo è stabilmente guidato dal vertice. A dispetto dello slogan “uno vale uno”, è proprio il leader (insieme alla Casaleggio Associati) a indirizzare la costruzione organizzativa, fissando i requisiti per la presentazione delle liste a livello locale e per le candidature. Anche i punti programmatici inizialmente inseriti nell’agenda del Movimento e le regole del “Non Statuto” sono imposti dall’alto. L’assenza di norme statutarie sulle strutture intermedie del “non-partito”, inoltre, consegna di fatto alla Casaleggio un totale controllo sulle adesioni e sulla gestione dei processi di partecipazione. Per questo, come hanno osservato Paolo Ceri e Francesca Veltri, quella del M5s non è una democrazia diretta, ma semmai una democrazia “diretta dall’alto”. La democrazia interna è cioè fortemente limitata da distorsioni che producono cooptazione, manipolazione, potere invisibile e verticismo. In molti casi “le decisioni importanti sono prese da persone prive di una legittimità elettiva”. E anche quando la decisione è presa a maggioranza, non è comunque mai il frutto di un processo basato su una discussione comune. Molti studi – per esempio M5s (il Mulino), curato da Piergiorgio Corbetta, e il nuovo numero dei Quaderni di Scienza Politica, curato da Marco Almagisti e Paolo Graziano – hanno mostrato che però qualcosa cambia con le elezioni politiche del 2013, dopo che la prima cospicua pattuglia di deputati grillini entra in Palamento. Un primo mutamento significativo riguarda la base elettorale. Se al principio i voti provengono dall’area del centrosinistra, a partire dal 2012 il Movimento inizia a raccogliere voti più o meno in tutto l’arco politico. Il suo baricentro si sposta progressivamente al Sud, come d’altronde l’esito delle elezioni del 4 dicembre ha sancito in modo eclatante. Oggi il M5s sembra così un vero e proprio “partito pigliatutti”, nel senso che raccoglie consensi nei settori sociali e geografici più vari (forse solo con la relativa eccezione degli elettori con più di 65 anni). Una trasformazione altrettanto rilevante è però intervenuta a livello organizzativo. Cinque anni fa il “party in public office”, ossia il partito degli eletti alle cariche pubbliche, era pressoché irrilevante rispetto al “party on the ground”, composto dalla base degli iscritti e dei militanti che operano sul territorio. Oggi le relazioni sono invertite: il partito degli eletti è il segmento decisivo, mentre la base territoriale appare persino svuotata di un ruolo sostanziale. Anche se non viene formalizzata (e a dispetto del principio della rotazione degli incarichi), comincia infatti a prendere forma una struttura intermedia, formata da quei parlamentari che – grazie alla popolarità acquisita – iniziano a diventare figure di spicco. Ma naturalmente il Movimento non ha perso i tratti di “partito-azienda”. Il cuore del partito ha continuato infatti a essere rappresentato da Grillo (e dalla Casaleggio Associati), che in diverse occasioni ha utilizzato lo strumento dell’espulsione per conservare la disciplina interna. Inoltre, le esigenze della competizione elettorale e della lotta politica quotidiana hanno richiesto la formazione di un ristretto gruppo di rappresentanti sempre più “professionalizzati”. L’investitura di Luigi Di Maio come capo politico ha sancito da questo punto di vista l’affermazione del ruolo del “party in public office”. Un’affermazione che l’elezione di Roberto Fico alla presidenza della Camera ha confermato e che nei prossimi mesi la “marcia dentro le istituzioni” dei pentastellati si incaricherà di consolidare ulteriormente. Ma è abbastanza prevedibile che non si tratterà dell’unica trasformazione organizzativa. Nonostante la retorica dell’iperdemocrazia, la scoperta di Casaleggio e Grillo non è stata dunque la democrazia diretta. Ma, semmai, la riscoperta del vecchio partito leninista, anche se ovviamente de-ideologizzato e adattato a una società molto diversa da quella di un secolo fa. Anche se ha oscurato gli ideali partecipativi dell’inizio, proprio il forte centralismo ha infatti consentito al partito di sopravvivere nel tempo e di superare i rischi di frammentazione che il precoce successo comportava. E proprio l’organizzazione richiesta dalle necessità della quotidiana lotta politica ha in seguito favorito l’emergere di un’oligarchia sempre più professionalizzata. Più di un secolo dopo la sua formulazione, la “legge ferrea” di Michels non sembra dunque essere minimamente scalfita. Sarebbe però sin troppo scontato riconoscere che, dietro la bandiera dell’“uno vale uno”, è tornata a riaffiorare la realtà di un’“oligarchia”. Semplicemente perché, al di là della retorica, fin dalle sue origini il Movimento 5 stelle era una sorta di “partito azienda in franchising”: un partito in cui era il vertice a controllare saldamente il “marchio” e la comunicazione sul piano nazionale, mentre alle articolazioni locali era concessa (almeno fino a un certo punto) un’ampia libertà di manovra. L’oligarchia nata dopo l’ingresso nelle istituzioni è piuttosto venuta ad alterare la fisionomia del partito. Più che “strappare lo scettro” al cittadino comune, l’emergente ceto parlamentare pentastellato si è affiancato a Grillo (e alla Casaleggio). La formazione di questa oligarchia, cresciuta nel “party in public office”, potrebbe persino dare origine nel tempo a una sorta di “diarchia” in equilibrio instabile con il cuore organizzativo e comunicativo del “partito azienda”. E non è escluso che possa verificarsi qualcosa di simile a quanto a Parma è avvenuto per il sindaco Pizzarotti, che ha capitalizzato la visibilità della carica istituzionale per “sfidare” il vertice dell’organizzazione. È difficile dire cosa diventerà nel futuro il Movimento 5 stelle (e molto dipenderà da quale sarà la composizione del prossimo governo). Quasi certamente, dell’“uno vale uno” rimarrà solo un vago ricordo. E probabilmente, per sopravvivere alle insidie dell’istituzionalizzazione, il “non partito” fondato da Grillo dovrà comunque diventare sempre più simile a un partito. Se infatti la formazione pentastellata dovesse accedere alla “stanza dei bottoni”, è scontato che la pressione dell’istituzionalizzazione diventerebbe ancora più forte. Ma anche se ciò non avverrà (come è probabile), il Movimento si troverà probabilmente di fronte alla necessità di rivedere il limite dei due mandati. La spinta a superare (magari in via eccezionale) il principale ostacolo alla “professionalizzazione”, e dunque ad abbandonare la regola della rotazione delle cariche, non sarà solo dettata dalla comprensibile intenzione del ceto politico di riprodursi e di conservare le proprie posizioni, ma dalle necessità stesse della competizione. Perché rinunciare a leader conosciuti, popolari e ormai abili nell’utilizzare gli strumenti comunicativi significherebbe privarsi di una risorsa preziosa e forse persino decisiva. Le polemiche sull’assenza di democrazia interna rischiano però di farci perdere di vista quella che è la vera rivoluzione del M5s. Che nulla ha a che vedere con Rousseau e con il fantasma della volontà generale celebrata dal filosofo ginevrino. Il successo del partito di Grillo sta semmai nell’aver ripensato e adattato il vecchio modello leninista, e cioè un modello di partito fondato – più ancora che i partiti socialisti studiati da Michels – sulla centralizzazione, sulla disciplina e sulla divisione dei compiti. Se infatti il partito ideato da Lenin nella Russia zarista era una sorta di “macchina” che imitava la ferrea organizzazione della fabbrica, anche il M5s basa le sue fortune su una “macchina” efficiente e sulla disciplina. In questo caso la macchina è però molto esile, e coincide con un apparato – tutto sommato esiguo – di esperti nella gestione dei flussi comunicativi. Nel mondo della “bubble democracy”, il partito non ha infatti bisogno (ameno inizialmente) di una rete di militanti che presidino i cancelli delle fabbriche o che battano le campagne. Ma la sua funzione cruciale – prima ancora che la selezione del personale politico – rimane quella comunicativa. Ossia la capacità di costruire una rappresentazione della società, delle sue linee di contrapposizione e dei suoi conflitti. Ed è anche per questo che, per molti versi, il Movimento 5 stelle può essere considerato quasi come il paradigma di una sorta di “Principe postmoderno”.