di Marino Niola («Il Venerdì», suppl. a «la Repubblica», 31 agosto 2018)
Una volta erano i paparazzi a tampinare i politici per coglierli di sorpresa e inchiodarli alla loro immagine. Oggi i rappresentanti del popolo si paparazzano da soli. E si postano in tutte le pose. Di recente hanno fatto discutere il selfie di Salvini ai funerali delle vittime di Genova e quello balneare di Toninelli a pochi giorni dal crollo.Il fatto è che nell’era dell’autocontemplazione di massa, l’autoscatto è diventato un prolungamento genetico dell’io, trasformando la rotazione della fotocamera degli smartphone in una sorta di proboscide digitale sempre rivolta su di sé. E proprio come gli elefanti si spruzzano acqua per rinfrescarsi, i politici rinfrescano, anzi “refreshano” il loro profilo. Ma qui siamo anche oltre. In questo misto di narcisismo e opportunismo c’è un fondo arcaico che ha a che fare con la mitologia del doppio, cioè la moltiplicazione della persona nei simulacri che la rappresentano, cosa che i potenti hanno sempre fatto, con immagini, statue, ritratti, monumenti, effigi. Ma questa mitologia antica adesso sbatte clamorosamente contro i cristalli liquidi dell’immaginario collettivo. E produce un cortocircuito tra rappresentanza e rappresentazione. I politici, ovviamente, sfruttano a pieno regime questa potenzialità di viralizzazione di sé. Che trasforma l’immagine in una onnipresenza del leader concreta, reale e tangibile. Un secondo corpo, un doppio che l’autoscatto digitale fa volare sulle onde del Web aumentando in maniera esponenziale lo share del capo. E misurandolo in pollici di gradimento. Ed è proprio questa complicità, popolare e populista, tra eletti ed elettori che sta scrivendo un nuovo patto sociale tra selfie-made men.