di Omar Kamal (huffingtonpost.it, 19 luglio 2022)
La storia è nota. Elon Musk, 51enne visionario proprietario di Tesla oltre che dell’azienda aerospaziale statunitense SpaceX, si è innamorato di un giocattolo il cui nome è Twitter. Il giocattolo in questione, il social media di microblogging, è stato creato dall’informatico e imprenditore Jack Dorsey: il suo primo tweet “just setting up my twttr”, datato 21 marzo 2006, è stato venduto nel metaverso come nft per la cifra record di 3 milioni di dollari che lo stesso Dorsey ha devoluto in beneficenza. Twitter — nato nel 2006 — conquista da subito milioni di persone sparse in tutto il mondo e il suo motore, in principio di soli 140 caratteri, appare inarrestabile: così, in molti, se ne innamorano perdutamente. Musk se n’è innamorato, ma non è stato il solo: la sola differenza è che Musk (rispetto ad altri) ha fatto un’offerta reale di 44 miliardi di dollari per comprare Twitter, ovvero 54,20 dollari per azione.
Lo stesso Donald Trump — l’ex presidente degli Stati Uniti bannato da questo social network — tanto ha amato Twitter quanto ha odiato l’idea di non potervi più accedere: da qui l’idea di creare “the Truth” un social network tutto suo, nelle fattezze identico a Twitter (eccezion fatta per la colorazione) e che, al netto di tutti i problemi tecnici che ha, sta vivendo una quotidiana emorragia di utenti. A ogni modo, perché Musk vuole Twitter? Risposta: perché può permetterselo. Ma non solo. Musk, come chiunque altro, brama Twitter perché sa che ha un superpotere (notevole) che però è molto lontano dal suo modello di business: questo superpotere è la sua capacità di influenzare l’opinione pubblica su campagne di diversa natura con espedienti magari legittimi, ma non necessariamente etici. E poi sì, proprio come dice Elon Musk, ci sarebbe anche quel bisogno di democrazia digitale che è un tema importante e sempre all’ordine del giorno. Ma, in soldoni, quanto renderebbe Twitter al patron di Tesla e SpaceX? Perché, come dicono gli americani “business is business”, e se un uomo d’affari particolarmente ingegnoso, astuto e intrigante, un bel dì si sveglia e decide di mettere sul piatto 44 miliardi di dollari per un social network, si pensa che prima o poi vorrà rientrare dell’investimento.
Ma c’è un “ma” che va immediatamente chiarito e per questo ci aiuta un testimonial d’eccezione, ovvero quel Gordon Gekko del primo Wall Street (1987) di Oliver Stone, che, rifacendosi alla fisica meccanica e alla legge della conservazione della massa di Antoine-Laurent de Lavoisier, disse: “Il denaro di per sé non si fa né si perde. Semplicemente si trasferisce da una intuizione ad un’altra, magicamente”. Vero. Solo che lo stesso ragionamento (che abbiamo imparato a nostre spese con l’ultima bolla immobiliare) vale anche per ogni bolla speculativa. Perché anche le bolle speculative passano, nostro malgrado, da un’intuizione ad un’altra e sono parecchio modaiole. E, oggi, questa moda riguarda i social media. Durante l’ultima bolla speculativa del mercato immobiliare, i prezzi delle abitazioni salivano a prezzi irragionevoli, mentre le banche concedevano mutui che sarebbero diventati insolvibili. Il problema principale, però, era il valore degli immobili: così alto da trasformare il tradizionale investimento nel mattone in una roulette russa per famiglie e piccoli risparmiatori che, anni dopo, si sarebbero ritrovati (se mai ci fossero riusciti) a ripagare un credito troppo elevato per un immobile destinato a perdere quasi il 40% del suo valore d’acquisto. Questo, però, solo nella migliore delle ipotesi.
Una bolla analoga a quella del settore immobiliare riguarda da vicino tutti i social network, che, per inciso, hanno principalmente due dati per attrarre investitori. Il primo dato è il fatturato, e dunque il volume d’affari. Il secondo dato valore, invece, è il numero di utenti della piattaforma: per i social media esiste il rischio di una seconda bolla, e questa riguarda proprio il numero effettivo di utenti che fanno parte del social network. Nel caso dell’acquisizione di Twitter, Musk sa che i suoi introiti dipenderanno da un certo numero di profili che spendono, investono e convertono per un modello di business non troppo performante. Questo perché ciò che lo rende utile — come le informazioni di pubblica utilità — non lo rende monetizzabile, ciò che lo rende potente lo rende controverso, mentre ciò che lo rende monetizzabile non lo rende così attraente per via di un tasso di conversione che non è tra i più invidiabili. Ma a questo punto Musk si sarà posto alcune domande, domande che ogni inserzionista dovrebbe porsi a prescindere. Domande del tipo? Quanti sono i profili reali? E quelli dormienti? Qual è il tasso di abbandono della piattaforma? Quanti sono i profili fake? E i bot?
I bot sono il vero oggetto del contendere, ovvero programmi e automatismi che simulano il comportamento umano in Rete: interessanti se usati in un sistema di customer care. Cosa diversa, invece, è avvalersi di bot per spingere il gradimento su campagne (anche di natura politica) o per indurre utenti reali all’acquisto di beni e servizi. L’utilizzo dei bot, benché lecito, è sempre una pratica moralmente opportuna? A questo, poi, vanno aggiunti i profili fake di persone reali che (in alcuni casi, pagate) spingono l’opinione pubblica a favore di cause, o che colpiscono l’audience social di talk show televisivi screditando ospiti selezionati o giornalisti ritenuti ostili alla propria causa. I bot aumentano, migliorano, progrediscono: danno l’idea di essere umani, risultando sempre più credibili. Il tutto mentre noi (gli umani) siamo arrivati ad avere la poco invidiabile soglia di attenzione di un pesce rosso e fatichiamo a distinguere una notizia vera da una fake news. Il problema c’è ed è più grande di quanto si pensi: perché account falsi e bot rappresentano un mercato parallelo dei social network. Un mercato (ricco) che muove soldi, e non pochi. Ma queste sono piattaforme private, non reti civiche. E in queste piattaforme usare i bot è lecito.
Tra Elon Musk e Twitter c’è di mezzo la trasparenza sui numeri sugli utenti, ma anche i soldi che sì, sono tantissimi: e raccogliere 44 miliardi di dollari non è semplice per nessuno. Neppure se ti chiami Elon Musk. Secondo Twitter, gli utenti (su 400 milioni di utenti attivi) tra bot e fake sono indicativamente il 5%, ovvero 20 milioni. Dirà Musk che sono molti di più, ovvero il 20% rispetto agli utenti attivi, tradotto, 80 milioni. Ogni profilo ha un suo valore e, se sommati fra loro, tutti questi profili possono far aumentare (o diminuire, a seconda dei casi) il valore complessivo della torta. Va da sé che pochi giorni fa Musk si è ritirato dall’offerta e Twitter ha deciso di fargli causa. Il ritiro di Musk ha portato a un duro contraccolpo per gli azionisti, visto che il titolo ha perso di colpo il 10%. “Un danno irreparabile” fanno notare dal social network: ma — aggiungo io — un danno d’immagine (prima) ed economico (poi) dettato dalla fibrillazione iniziale per l’offerta di Musk, così come da quelle stesse ombre che Musk avrebbe gettato su Twitter. La questione ora passerà ai giudici che daranno il via ad un contenzioso che potrebbe partire già dal 19 luglio: Musk potrebbe dover acquistare Twitter così come concordato, oppure potrebbe risarcire il social network per 1 miliardo di dollari, ovvero un quinto del fatturato rispetto ai dati dello scorso 2021.
Al di là della causa legale, è importante che tutti riflettano sul funzionamento delle reti sociali, e su come il mercato parallelo di bot e profili falsi muova un certo fatturato che potrebbe, a sua volta, risultare disfunzionale alle piattaforme così come ai propri clienti. Portare popolarità a un brand, a un’idea, a un partito politico o ad una celebrità, ha un costo. Quel costo, penso io, dovrebbe chiamarsi lavoro e fatica. Altrimenti la sola cosa che noteremo è l’ambiguità, e l’ambiguità porta alla sola cosa meno radicata di una fede ma più radicata di un’idea: il dubbio. E il dubbio, come questo caso insegna, fa male agli affari.