Bosé nel nuovo disco canta l’antipolitica del partito Podemos. «La Spagna va cambiata». E riceve critiche bipartisan
di Andrea Nicastro («Corriere della Sera», 7 novembre 2014)
Barcellona – «Sparano al cieco giusto in mezzo agli occhi/ e rubano la sedia al malato e allo zoppo/ Mentono tutti i giorni/ non rispettano neppure una promessa». Chi sono i responsabili di tante iperboliche malefatte? I politici, ovviamente. E a dirlo non è lo Spirito dei Tempi, ma Miguel Bosé, in parole e musica. La canzone spicca nel suo nuovo album (Amo) appena presentato in Spagna e si intitola Sì, se puede, slogan di Podemos, il partito erede del movimento degli Indignati. La presentazione del disco si è trasformata in un comizio con l’ex sex symbol Anni 80 riconvertito in maître à penser alla maniera di Adriano Celentano. «Non mi piace la Spagna nella quale stiamo vivendo, è roba da fantascienza. Non me la sarei mai immaginata così ridotta, una tragedia». I giornalisti si preparavano a sentire elogi per gli arrangiatori o l’elenco delle tappe dei concerti, invece, hanno preso nota della «rabbia» di Bosé per «un Paese che ha perso la sua allegria». «Di solito uso l’ironia o il sarcasmo, ma questa volta non bastava per sfogarmi. Avrei potuto nascondere il brano nel mucchio degli altri, invece… Sono troppo furioso». «I partiti tradizionali devono cedere il passo. Bisogna cambiare. Cambiare radicalmente. Chi dovrà governare si ritroverà un’eredità tremenda, però bisogna crederci, appoggiare il passaggio. Ci vogliono idee e facce nuove». Da destra, i commenti sono stati spietati. Il tono era sostanzialmente: che cosa vuole questo figlio di papà (e mamma)? Uno che ha avuto come padrino di battesimo Luchino Visconti, amici di famiglia come Picasso e Hemingway, che cosa può capire del dramma d’essere sfrattato di casa? Gli hanno dedicato colonne taglienti Abc, El Mundo, La Razon. Ma anche a sinistra, sui siti e sui blog, soprattutto nei commenti degli articoli, la maggioranza ha accolto la conversione di Bosé con disagio snob. C’è chi persino l’ha considerato una manovra occulta per screditare Podemos. A quasi 60 anni Miguel Bosé è uno showman dal seguito transcontinentale. Nato nel privilegio del network familiare del papà torero e della mamma attrice, si è costruito una carriera da 25 milioni di dischi (in crescita) sopravvissuta ad ere musicali e politiche diversissime. Il primo successo (Linda dei Pooh) ne fece un melodico romantico accettabile anche dal tardo franchismo. Con la movida e l’ubriacatura libertaria dei primi anni di democrazia spagnola, il ragazzino cominciò ad ancheggiare ammiccante. Quando però le adolescenti hanno cominciato a non cercarlo più ha aumentato la carica trasgressiva, arrivando ad arrampicarsi sui tacchi a spillo di musa transex. Lo fece per Almodovar, cantò Un anno d’amore di Mina e tornò primo nelle classifiche di vendita. Il tutto, prima di approdare a X Factor o ad Amici, vestendo i panni del presentatore di Sanremo (1988) e del primo canale tv della Spagna del conservatore Aznar (1999). Pochi possono sfoggiare in carriera una copertina disegnata da Andy Warhol o un mercato che va da Città del Messico a Caltanissetta. Piaccia o non piaccia, Miguel Luchino Bosé è un professionista con un fiuto straordinario per il cambiamento dei gusti. Da prototipo macho di super superman, Miguel è diventato icona trisessuale con quattro figli fatti con uteri in affitto. Sì, se puede, titolo della canzone che fa discutere la Spagna, è anche la versione castigliana del motto del primo Barack Obama Yes, we can, diventato poi lo slogan di Podemos. Un globe trotter come Bosé poteva lasciarsi sfuggire un’occasione del genere? Nonostante l’ultima débâcle, il mercato dei latinos in Usa resta democratico. In Spagna, invece, il partito Podemos è in grande crescita. Bosé si è schierato al suo fianco due giorni prima che un sondaggio lo indicasse come prima forza per intenzione di voto alle prossime elezioni. Quando si dice fiuto.