di Guia Soncini (linkiesta.it, 4 settembre 2024)
Cinque anni fa, a Sanremo ci fu una polemica che lì per lì sottovalutai. Riguardava la vittoria di Mahmood, che con Soldi aveva battuto Ultimo. La sottovalutai perché Soldi era così evidentemente la più bella canzone italiana di questi anni che polemizzare non poteva che essere indizio di fesseria. Ma la sottovalutai anche perché non avevo, prima di quel Sanremo, sentito nominare nessuno dei due, epperciò mi pareva una gara tra ignoti.
Finché qualcuno mi disse: ma Ultimo fa gli stadi. Ora, ormai, i concerti negli stadi li fanno i cani e i porci, ma non moltissimi anni fa “fare gli stadi” era ancora il segno che eri un, scusate la citazione, colosso della musica. E invece ora c’era un cantante che riempiva l’Olimpico e io non sapevo esistesse, e fin lì non era grave: non ascolto i viventi. Il dettaglio preoccupante è che nessuno dei miei amici, quelli che invece i viventi li ascoltano perché hanno il terrore d’essere definiti “boomer”, aveva mai sentito una canzone di Ultimo.
Sono passati cinque anni. Continuo a non aver mai sentito una canzone di Ultimo, a non conoscere nessuno che abbia mai sentito una canzone di Ultimo, figuriamoci che sia stato a un concerto di Ultimo. Di Ultimo che, leggo, in otto anni di carriera ha riempito quarantuno stadi. Dunque non conosco l’Italia? Non basta che veda religiosamente Temptation Island? Giorni fa parlavo delle prossime elezioni statunitensi con la più americana delle mie amiche. Lei diceva che è troppo presto per capire chi vinca, perché c’è una massa di americani che non vengono intercettati dai giornali e dai sondaggi, che esistono ma sono difficili da inquadrare. Poi, siccome è anche la più italiana delle mie amiche, ha aggiunto: sai, quelli che qui andavano ai concerti dei Modà, che vanno ai concerti di Ultimo (non conosco neanche nessuno che conosca una canzone dei Modà o sia stato a un loro concerto, in effetti).
Il pubblico non inquadrabile immagino sia l’incubo dei sondaggisti, e in Italia io m’illudo che tutto sia inquadrabile. Di recente un tassista bolognese mi ha detto che non ci libereremo mai di Lepore perché «la gente vota a seconda di cosa votava il bisnonno», e visto che i nostri bisnonni erano tutti fascisti (anche se a Bologna no, anche se nell’Italia intera rappresentata sui social a fine aprile si millantano tutti avi partigiani: cento milioni di nonni partigiani), credo di sapere come finirebbero delle elezioni qua più di quanto si sappia come finiscano le elezioni là.
Però m’è rimasto questo tarlo dell’invisibile e massiccio pubblico di Ultimo: come votano? Come pensano? Chi sono? Dove si nascondono, prima e dopo i concerti? Se il carattere italiano lo definisce, come credo, Bruno Cortona, cioè il Vittorio Gassman de Il sorpasso, se il carattere italiano è fatto di «Chi è ’sta cicciona? Perbacco, bella donna» e «Sono veramente sorry», di millantare agio economico e non avere i soldi per la benzina, di provarci con tua figlia senza riconoscerla e di ammazzare un amico di cui non sapevi il cognome, se il carattere italiano è quella mistura di cialtroneria e margini dell’illegalità, cafonaggine e capacità di uscirne indenni, se il carattere italiano è quella roba lì che noialtri indossiamo in genere con meno stile di Gassman, quanti Bruno Cortona in sessantaquattresimo ascoltano Ultimo?
Quando hanno annunciato la partecipazione alle paralimpiadi di Valentina Petrillo, che con la muscolatura d’un uomo si percepisce donna e quindi corre tra le donne, le mie amiche (tutte troppo vecchie per avere ambizioni atletiche) si sono indignate per conto filiale: un uomo che ci arrubba lo sport femminile, le nostre bambine respinte dalle millanterie postmoderne, scandalo e busciardìa. Poi Petrillo, al netto dei gameti, ha fatto ciao ciao con la manina a qualcuno a bordo pista, ha gareggiato senza l’accompagnatore che avevano al fianco le altre concorrenti (non vedenti) per non uscire di corsia, ha detto che il lilla era il suo colore preferito. E io mi sono chiesta se stesse prendendo forma il soggetto d’un nuovo film rappresentativo dell’italianità, del Paese in cui Cortona ha sul parabrezza un finto contrassegno parlamentare, Totò vende la fontana di Trevi, e tra le femmine cieche corre un uomo che pare proprio ci veda.
Stavo parlando dell’imminente libro di Elly Schlein con amici che chiedevano «ma chi se lo compra?», quando è scoppiato un irrilevante scandaletto da social, la cui irrilevanza non m’impedirebbe di parlarne, ma magari un altro giorno. Oggi dirò solo che riguardava la Schlein, e un’intervistata di sinistra che ha detto che Giorgia Meloni è più brava di lei (un’ovvietà così ovvia che io la ripeto da anni senza che ciò dia scandalo: ohibò, sarà che non sono percepita di sinistra?). Oggi dirò solo che del libro della Meloni nessuno si è mai chiesto «ma chi se lo compra», nonostante quando uscì ella non fosse ancora la prima presidente del Consiglio declinata al maschile. Oggi vorrei parlare della più saggia delle mie amiche (sempre quella di prima), che mi ha interrotta mentre dicevo ma è ovvio che la Meloni governerà trecento anni, su, ma veramente dobbiamo far finta che quest’ovvietà sia infuocata materia di dibattito.
Mi ha interrotto per dirmi della Meloni quel che in America si dice dei rapper: che «represents». Perché ti votino devi far loro da specchio, devi far sentire qualcuno rappresentato nelle istituzioni, devi somigliare agli elettori. Certo, Donald Trump al massimo represents i miliardari cafoni, i bancarottieri con soldi ereditati, però poi non è vero: represents i maschi che ti mettevano le mani sul culo anche se non volevi, represents quelli con più ambizione che talento (uno dei tratti più diffusi tra gli esseri umani di questo secolo), represents quelli con inspiegabile autostima, represents quelli per cui meno interesse alla politica estera, meno welfare, meno mollezze europee significa innanzitutto: meno tasse per gli americani.
Kamala Harris chi diamine represents? Quelle che indossano bene Chloé? Quelle che si sono prese un marito coi figli già fatti per risparmiarsi la scocciatura? Quelle con la risata nevrotica? Quelle abbastanza fighe da potersi risparmiare il mezzo tacco slanciante e indossare le Converse? Mentre mi perdevo a pensare alle elezioni americane, la mia amica saggia mi ha riportata alla Meloni: la Meloni represents, la Schlein chi diamine represents? Non mi è venuta in risposta neanche una categoria, ho fatto scena muta come le asine che non hanno studiato contando su un brunocortonico colpo di fortuna.
Ha dovuto rispondersi da sola. La Meloni è arcitaliana, la Schlein rappresenterà mai le atlete che riescono a battere maschi millantatori di disabilità? Figuriamoci: al massimo rappresenta gli aspiranti stylist di Porta Venezia che, nel monolocale che chiamano “loft”, d’estate tifano Petrillo davanti al cous cous, e in autunno fanno il gruppo d’ascolto di X Factor mangiando sushi. È un’immagine tremenda, lo so. Non smetto di pensarci da ieri. Penso che, per distrarmi, mi butterò sulla discografia di Ultimo. Magari è la volta che capisco il Paese reale.