di Guia Soncini (linkiesta.it, 15 novembre 2022)
Cara Vanessa Friedman: che invidia. Che invidia per te che puoi fare l’articolo sui vestiti di Giorgia Meloni perché il New York Times ha (anche) lettori non così stolidi da dire ah, ecco, una donna viene sempre ridotta al suo aspetto, vergogna, non parlereste mai dei vestiti di un uomo.
Che invidia per una cultura che prende sul serio il costume, il pop, le frivolezze, per giornali che sanno che una camicetta racconta almeno tante storie quante un discorso in Parlamento, per lettori all’altezza del loro ruolo. Epperò, cara Vanessa Friedman: che peccato. Che peccato tu abbia deciso di occuparti di quali stilisti mai vestirebbero la Meloni (che, orrore, è di destra) così come non avevano voluto vestire Melania Trump (che, pare, pure), invece che – se non marginalmente – della grande incognita che affligge noi che pensiamo che i vestiti siano una cosa seria e seriamente vadano valutati.
La grande incognita la liquidi in un paio di paragrafi, mentre noi abbonati del Nyt avremmo avuto diritto a leggerne un’analisi dettagliata. È, credo, il più importante mistero italiano di questo decennio: perché Giorgia Meloni è passata dal delizioso vestirsi da donna normale della campagna elettorale, dal rappresentare la speranza che fosse possibile essere una donna di potere non in tailleur, non derivativa di Una donna in carriera, non cascame degli spot dello shampoo degli anni Ottanta, perché Giorgia Meloni ha smesso d’incarnare quella speranza ed è passata ai tailleur, oltretutto neri?
Il giorno del giuramento c’era una ragione seria, da lì andava a un funerale, mica poteva andarci in quel verde mela indossando il quale, al Meeting di CL, aveva conquistato il mio ottimismo (se vinci le elezioni in gonna a pieghe, allora il soffitto di cristallo è davvero sfondato, allora non ti devi conciare da Letizia Moratti in sedicesimo per venire presa sul serio). Ma da lì sono stati solo neri o al più blu gucciniani («personalmente austero, vesto in blu perché odio in nero»), da lì sono state solo giacche coi revers, da lì non c’è stata più alcuna speranza estetica. Mentre i social s’indignavano perché un concorrente (Enrico Montesano) di programma popolare (Ballando con le stelle) era stato filmato, durante le prove di ballo, con una maglietta della Decima Mas, e com’è possibile che la Rai così attenta alle sponsorizzazioni non abbia oscurato il logo, il Paese reale si faceva altre domande.
Veramente pensiamo che agli italiani che non sono Paolo Mieli, agli italiani che sono redattori o costumisti di varietà televisivi, dicano qualcosa le parole “Decima Mas”? Che la risposta sia “no” è evidente dal fatto che lo scandalo sia stato fatto scoppiare ventiquattr’ore dopo: quando è andato in onda il filmato, nessuno in studio o tra il pubblico ha notato nulla di strano in quella maglietta. Esattamente come chi lavora in tv, chi guarda la tv riconosce il logo della Lacoste ma non i motti dannunziani (dietro alla maglietta c’era scritto Memento Audere Semper: avranno pensato che Christopher Nolan avesse girato un sequel).
C’è una tradizione di marchi non riconosciuti che sfuggono alla severa censura Rai dei loghi che non pagano per comparire. A Sanremo, Achille Lauro deve cambiare le parole d’una canzone che cita uno stilista («vestito bene Michael Kors» diventa «vestito bene a via del Corso»); ma, sempre a Sanremo, il marito della Ferragni compare con addosso delle stampe che anche un cieco riconoscerebbe essere di Versace: è più pubblicità la fantasia caratteristica della maison, o un nome di stilista biascicato in romanesco?
Ma, soprattutto, la domanda che attanagliava noialtre era: possiamo accantonare Montesano e la sua maglietta nera che certo convertirà le masse al fascismo, e chiederci perché Giorgia Meloni abbia smesso i colori pastello? La più ovvia spiegazione che mi venga in mente è: praticità. Il nero tiene meglio la fatica, se per un’intera giornata non hai tempo di cambiarti. Ma vogliamo dire che la campagna elettorale fosse riposante? Perché lì osava il rosa e ora no? Vuole uccidere l’export italiano e ridurlo ai vestiti da prefica moderna?
Friedman teorizza di no, giacché i tailleur neri sono Armani, e chi più sinonimo di Made in Italy, per una che il Made in Italy l’ha messo pure nel nome d’un ministero. Però poi dice che la Meloni i vestiti va a comprarseli in boutique, e che sull’Instagram di Armani ella non compare con indosso i suoi capi. Tradotto, significa: non glieli regalano. Non è come quando la Rai fa il comunicato stampa dicendo quale stilista vestirà la conduttrice di Sanremo; è come quando la Rai lascia che un concorrente si vesta con una maglietta portata da casa, e se ti va bene è Armani e se ti va male è una brigata fascista.
Un’accademica intervistata dalla Friedman dice che la Meloni sceglie vestiti che non distraggano: col tailleur nero nessuno baderà ai tuoi vestiti, tutti si concentreranno sulle tue scelte politiche. A parte che non sono sicura sia un bene, i vestiti sono scelte politiche. È un po’ il punto della questione: non cosa stia meglio addosso a Giorgia Meloni, ma se il ventunesimo secolo sia pronto non solo a un’Italia governata da una donna, ma da una donna che non si vesta come la Merkel, come la Lagarde, come Hillary Clinton; come le donne cresciute in anni in cui, se volevi ti prendessero sul serio come donna di potere, per forza il tailleur dovevi mettere.
Non dico che la gonna a pieghe fosse, per la Meloni, come strapparsi il velo per le donne iraniane. Non lo era, giacché non abbiamo una polizia morale ufficiale (solo una volontaria che si esibisce sui social) e non viviamo in una teocrazia e non siamo tenute alla divisa. Però era, la gonna a pieghe, il riempimento di quel poco margine di coraggio rimasto da dimostrare in una società in cui le donne hanno diritto a tutto, oggi persino al governo, e forse un domani persino a cambiare il dress code.