di Francesco Boille (internazionale.it, 24 ottobre 2022)
«Sapevo di citare Mussolini. Mussolini era Mussolini. Ok. È una bella citazione, molto interessante. So chi l’ha detta. Ma che differenza fa se è Mussolini o qualcun altro? È sicuramente una frase molto interessante. C’è un motivo se ho 14 milioni di follower tra Facebook e Twitter. È una citazione interessante che può essere fonte di dibattito». Il prologo si concentra su Donald Trump.
Al quale un giornalista chiede conto della sua citazione di Mussolini ripresa da un account Twitter, “ilduce2016”, che in realtà era un account-trappola pensato per dimostrare che Trump twittava gravi sciocchezze con la massima facilità purché avessero un contenuto estremista. Eppure è stato eletto ugualmente alla Casa Bianca. Forse si sarebbe potuto metterlo in difficoltà facendo presente che gli Alleati, tra cui gli Stati Uniti, fecero guerra ai Paesi dell’Asse, tra cui l’Italia, dopo il terribile attacco giapponese di Pearl Harbor e che sul suolo italiano ed europeo ci sono grandi cimiteri costellati da lapidi di giovani soldati caduti in combattimento anche per colpa di chi ha detto quella frase «interessante che può essere fonte di dibattito».
Ma la rimozione della memoria, il buco esistente al suo interno che toglie il senso alle cose (di cui il tweet e l’affermazione di Trump sono chiaramente rivelatori e che ormai coinvolge anche gli Stati Uniti e non solo vari Paesi europei, in una sorta di blob che dilagando in ogni parte fagocita tutto), storicamente riguarda prima di tutto la stessa Italia. Un Paese dove, da quando Silvio Berlusconi è sceso in politica, la dittatura che non c’è mai stata – il comunismo – sembra essere il grande problema, mentre invece quella che c’è stata davvero – il fascismo – è rimossa. Rimuovere ogni reale responsabilità, autoassolvendosi, è un comportamento che sembra pervadere ampi strati di società italiana fin dalla conclusione del secondo conflitto mondiale. Quante volte sentiamo sui mezzi d’informazione, o nelle semplici conversazioni tra le persone, sollevare la questione della nostra responsabilità verso gli altri, verso i Paesi che hanno dovuto subire la barbarie della guerra nazifascista?
Presentato a Venezia, il documentario Marcia su Roma dell’irlandese Mark Cousins – un visionario del cinema d’autore, a cui si deve tra gli altri lo straordinario The story of film: an Odyssey (2011) – riesce a colpire nel segno anche su questo. Narra in prima persona ma lo fa con un tono intimo, confidenziale, sussurrato, all’opposto di quelli fascisti e marziali. Il suo è un capolavoro in cui la lezione della storia non diventa mai lezioncina, quella petite leçon controproducente di cui sono specialisti i francesi. Oltretutto si salda a una magistrale lezione di cinema e sul senso del mezzo d’espressione all’interno del Novecento. Inquadratura, fuori campo, montaggio. Queste le tre parole magiche della sua narrazione. Quelle del cinema. Ma Cousins va ben oltre. Perché indaga molteplici buchi: quelli esistenti nella stessa realtà dei fatti e quelli presenti in un film che fu l’apologia propagandista della marcia su Roma e quindi del fascismo. Buchi che si saldano tra loro come una cosa sola, quelli cinematografici e quelli della realtà storica.
Dopo il prologo trumpiano viene infatti subito il cinema. In apertura delle ombre, vibranti, in movimento, volatili, scorrono sui muri della Roma di oggi come se fossero le ombre proiettate da una lanterna magica – tra gli antenati del cinematografo (e del cinema moderno) – e insieme le reminiscenze delle ombre della memoria, oppure le ombre della storia. All’improvviso fa capolino una scritta: «La cinematografia è l’arma più potente». Tra verità e manipolazione il cinema è stato centrale nel corso del Novecento nel restituire la realtà al mondo così come nel falsificarla. Per quest’ultima ha operato la propaganda. Per la prima, invece, dice tutto l’appello del presidente statunitense Franklin Delano Roosevelt «a tutte le donne e gli uomini di buona volontà» affinché andassero a vedere al cinema La grande illusione (1937), uno dei più grandi film pacifisti di tutti i tempi che il maestro Jean Renoir diresse negli Stati Uniti dove era fuggito dopo l’invasione nazista della Francia.
Ma torniamo all’Italia, e al cinema. Si comincia a Napoli con immagini di repertorio della prima regista italiana, Elvira Notari, girate durante la festa della Madonna del Carmine. Siamo nel 1922. «Il secolo è giovane. Si sta riprendendo da una guerra atroce. E ha una nuova e luminosa forma d’arte. Il cinema». Poi un salto. «Treni speciali riversano a Napoli meravigliose forze fasciste». È la didascalia del film muto A noi! di Umberto Paradisi, film centrale tra i molti qui raccontati. «È ottobre inoltrato del 1922». Il Partito nazionale fascista, fondato a Milano tre anni prima, tiene qui a Napoli, il 24 ottobre, un raduno fascista. Ma come sottolinea Cousins «se ne aspettavano 30mila, ne arrivarono circa la metà». «Presentato come un ritratto accurato dell’ascesa del fascismo ne distorse la realtà. Una realtà inquietante». A noi! innescò una valanga. E tuttavia Mussolini è spesso fuori campo dall’innesco di questa valanga, o al limite ripreso in campo lungo. La sua assenza all’inizio di A noi! è come un buco, sottolinea Cousins, uno dei tanti nel film: «Buchi che rivelano le sue ansie, la sua politica», quelle e quella di Mussolini.
Passano più di 17 minuti prima che Paradisi ce lo mostri in primo piano. Un volto e uno sguardo inquietanti. «È questo il modo giusto di farlo? Non c’è qualcosa che ricorda il cinema dell’orrore?», si chiede ancora il documentarista irlandese. Appena nove giorni dopo, Mussolini diventò il più giovane presidente del Consiglio della storia d’Italia. Verso la fine di A noi! «l’ambigua presenza di Mussolini si fa più decisa» e questo avrà delle «conseguenze per l’Italia. E per il mondo». Il film di Paradisi ne fu complice, occultando la verità. Per esempio sul fatto che il raduno di Napoli del 1922 non fosse per nulla affollato. Il regista «raduna le persone in primo piano per riempire le inquadrature e inquadra le folle in campo lungo per suggerire una moltitudine». Taglio delle inquadrature e montaggio cambiano quindi radicalmente la percezione, cambiano la realtà, il senso delle cose. Poi il film lascia Napoli. In tutta fretta viene organizzata una marcia a Roma, per «fare del potere di Roma il loro potere».
A noi! inganna quasi sempre: quando comincia ci viene fatto vedere che la data è il 28 o il 29 ottobre «mentre quello che segue probabilmente fu ripreso il 30 e il 31 ottobre». Cousins si pone una domanda precisa: «Perché omettere o mentire su questi tre giorni?». Tra le varie e complesse ragioni ne evidenza una, molto pratica: la pioggia. Un diluvio accolse la marcia delle camicie nere, il terreno era fangoso. «Ed essere fradici, infreddoliti, avviliti, non era eroico», lontano anni luce «dall’immagine che i fascisti volevano mostrare al mondo». Anche se poi ci sono alcune sequenze dove il fango emerge. La realtà non si riesce a tenerla del tutto fuori. La pioggia, annota Cousins, «creava confusione, era troppo reale». Uno sberleffo del mondo reale, in effetti. La marcia doveva essere invece «perfetta, virgiliana».
Cousins fa respirare le immagini, immagini di vestigia di un passato imperiale la cui nostalgia ha reso e rende ancor più l’Italia un’italietta, oggi ancora troppo spesso provinciale e livorosa. Ma poi rivela anche lui il suo inganno: sono immagini dai set cinematografici di Cinecittà, a Roma. Un inganno alla rovescia, beninteso. Immagini imperiali che sono invece paccottiglia storica e, al contempo, un grande momento del cinema come arte del Novecento e della storia, davvero gloriosa, del cinema italiano del secondo dopoguerra. In verità Mussolini non era alla marcia, ma a Milano, pronto a fuggire in Svizzera se fosse fallito il colpo di Stato. Una volta chiaro che era tutto a posto salì sul treno per Roma, lesto a prendersi tutti gli onori del successo della marcia. E il potere. Paradisi, però, manipola ancora una volta la realtà dei fatti, la loro cronologia, suggerendo che arrivò prima inserendo quelle immagini «all’interno dell’azione».
Il 31 ottobre Mussolini, ormai presidente del Consiglio, è a piazza Venezia con il re. Una manciata di giorni che hanno sconvolto la storia. Non ci sono solo i più famosi dieci giorni della rivoluzione bolscevica in Russia. Ma i sette giorni che da Napoli portano i fascisti al governo di Roma. Il regista irlandese sottolinea la partenza dalle giornate di Napoli per la cronologia dei fatti che portarono all’avvento al potere del fascismo. «Cos’è successo?», si chiede Cousins, che riesce a restituire lo stordimento, suo e della storia, interrogandosi sulla quasi inspiegabile «velocità degli eventi. Su quanto facile fosse stato. Su come il centro avesse capitolato». Sulla rivendicazione di Mussolini di aver imposto la marcia su Roma, Cousins è a dir poco scettico. «C’è una storia più grande dietro. Una storia nascosta?».
Le folle che sembrano acclamare Mussolini al Quirinale ci sono e non ci sono. È tutto un montaggio, che arriva a offuscare quello che si vede nonostante tutto. Anche all’altare della patria, Paradisi, come al Quirinale, continua «a triplicare la realtà» per mezzo del montaggio. La stessa marcia dovette deviare e tornare indietro. Gli operatori come la folla osservano stupiti questa marcia che fa retromarcia. «Agli stanchi marciatori fu negata la battaglia. E in cambio gli fu donata una cerimonia. Un pavoneggiarsi nella città eterna», è la risposta di Cousins. «Ma l’apice di questa cerimonia gli fu negato». Se i lettori vorranno diventare spettatori, scopriranno sia il motivo sia il gioco infernale con date e situazioni reali reinventate dal montaggio. La marcia su Roma non fu una vera marcia. Non fu una vera insurrezione. I marciatori non sapevano di prestare il volto a una facciata. Una facciata dietro la quale si muovevano poteri occulti, il buco più oscuro dell’ascesa di Mussolini. E il film s’inoltra anche in esso. Un’oscurità fatta di bugie su bugie le cui onde, dice Cousins, dilagarono nel mondo. La marcia su Roma fu una grande fake news, purtroppo fatta ad arte.