di Edoardo Giribaldi (huffingtonpost.it, 19 febbraio 2024)
Héritier Luvumbu, ala sinistra da qualche giorno non più in forze al Rayon Sports, squadra che naviga nelle zone alte della classifica della Premier League del Ruanda, massimo campionato di calcio a livello nazionale, segna, direttamente da calcio di punizione, il gol dell’1-0 nel match contro il Police F.C. Qualche giorno più tardi viene sospeso dalla Federazione calcistica del Ruanda per sei mesi, il suo contratto col Rayon Sports viene stracciato per “cattiva condotta” ed è costretto a lasciare il Paese, rifugiandosi nella Repubblica Democratica del Congo, accolto dal ministro dello Sport locale.
Nel mezzo, un’esultanza definita “sconvolgente” dal suo ormai ex club. Dopo aver visto il pallone insaccarsi in rete, Luvumbu si è coperto la bocca con la mano sinistra, puntando le dita della destra alla tempia, mimando una pistola. Lo stesso gesto era stato replicato dall’undici titolare della Nazionale della Repubblica Democratica del Congo (RdC) durante l’esecuzione dell’inno nazionale Debout Congolais allo Stadio Olimpico Alassane-Ouattara di Abidjan, prima della semifinale della Coppa d’Africa, conclusasi di recente, contro la Costa d’Avorio, vincitrice poi del torneo.
Avvicinandoci al nostro calcio, giovedì scorso, dopo aver segnato il gol del definitivo 1-1 contro il Feyenoord in Europa League, anche il centravanti belga della Roma Romelu Lukaku aveva portato una mano alla bocca e l’altra alla tempia. Ancora, tale esultanza era andata al di là dei confini dell’ambito sportivo. Accompagnato dallo slogan “On nous tue et le silence règne” (“Ci uccidono mentre regna il silenzio”), il gesto è apparso su un gran numero di profili social; tra cui quello di Patrick Muyaya, portavoce del governo della RdC e ministro della Comunicazione e dei Media.
Il riferimento è al conflitto, definito dal Guardian “il più sanguinoso al mondo”, che sta affliggendo l’Est del Congo. Più specificamente la regione del Nord Kivu, dove si registrano più di sei milioni di morti e le violenze, di recente, sono entrate in una nuova, avanzata fase di intensità ed instabilità. La guerra vede, da una parte, i ribelli del 23 March Movement, abbreviato in M23, un gruppo armato nato nel 2012 e distaccamento di un’altra formazione, il Congresso nazionale per la difesa del popolo (Cndp), schierato apertamente contro il governo di Kinshasa, l’altro fronte del conflitto. L’accordo di pace siglato tra le due fazioni, siglato proprio il 23 marzo 2009, che prevedeva la reintegrazione dei combattenti nell’esercito nazionale, non fu, secondo i ribelli, rispettato.
Condizioni di vita e paghe scadenti portarono alla formazione dell’M23, che si pone come scudo a protezione della minoranza etnica dei Tutsi, tristemente protagonisti di una campagna di genocidio condotta in Ruanda nel 1994, considerata una delle più sanguinose del secolo scorso, che tolse la vita ad almeno 500mila persone nel giro di appena cento giorni. Ad oggi, l’M23 contesta al governo una complicità con le Forze Democratiche per la Liberazione del Ruanda (Fdlr), riconducibili alla minoranza rivale degli Hutu, i cui membri furono tra gli interpreti del citato genocidio.
Oggi, i ribelli dell’M23 stanno tornando a farsi sentire, bussando, per usare un eufemismo, alle porte di Goma, la Capitale del Nord Kivu, già conquistata e poi persa nel corso degli anni. Alle porte della città, che conta due milioni di persone, si registrano interruzioni di strade strategiche e il mancato accesso a cibo e cure mediche. «Le condizioni, l’accesso all’acqua, alle latrine ma anche al cibo, alla salute e alla sicurezza, sono estremamente precarie» ha affermato Stephen Goetghebuer, capo delle missioni di Medici Senza Frontiere, a Radio France Internationale. «Nelle nostre strutture trattiamo in media sessanta casi di violenza sessuale al giorno che provengono dai campi profughi, quindi si tratta di sopravvissuti a queste violenze. E probabilmente si tratta solo di una piccola parte delle vittime. A ciò si aggiunge l’ansia, poiché Goma è circondata».
La recente escalation, che ha causato lo sfollamento di centinaia di migliaia di persone, s’inserisce nella cornice di oltre cento gruppi armati attivi nell’Est del Congo, tutti in lotta per conquistare una frazione dell’oro e delle altre risorse di cui la regione è ricca. Proprio quest’ampia disponibilità di risorse sembra rappresentare l’innesco delle violenze e, allargando lo spettro, di ingerenze da parte di Paesi terzi. Su tutti, proprio il Ruanda. Quel Ruanda definito Paese “sicuro” dal primo ministro britannico Rishi Sunak. Quel Ruanda sul quale pende un discusso piano di invio di richiedenti asilo britannici, che rischierebbero di essere rimpatriati nel loro Paese d’origine e per il quale, pur di ribaltare la decisione della Corte suprema che ha dichiarato il piano illegale, è stata introdotta una legge che annullerebbe tale sentenza. Quel Ruanda, infine, accusato di spalleggiare l’M23.
Il trattamento riservato a Luvumbu ha fatto alzare più di un sopracciglio a chi già si dimostrava diffidente riguardo le parole di Sunak. Da anni, e di recente, le Nazioni Unite e poi gli Stati Uniti hanno accusato il Ruanda di fornire soldi e milizie ai ribelli del Nord Kivu. Lo scorso sabato, il Dipartimento di Stato americano ha parlato apertamente dell’aggravarsi «della violenza causata dalle azioni del gruppo armato M23, sostenuto dal Ruanda», invitando il governo a «ritirare immediatamente tutto il personale della Forza di Difesa» nazionale e l’arsenale di missili terra-aria fornito proprio da Kigali.
«Poiché vuole comportarsi come Hitler con i suoi obiettivi espansionistici, prometto che finirà come Hitler». A lanciare le accuse era stato, a dicembre, Felix Tshisekedi, presidente della Rdc, appena dopo la sua rielezione per un secondo mandato. Il Ruanda, dal canto suo, nega, ma di fatto fa eco alle accuse dell’M23 riguardo i legami tra il governo congolese e gli Hutu. «Il rischio di un confronto diretto tra Rdc e Rwanda, che [si imputano] l’un l’altro il supporto a gruppi armati è reale», aveva affermato l’inviato speciale del Segretario generale dell’Onu, Huang Xia, al Consiglio di Sicurezza di ottobre. «Il rafforzamento militare, l’assenza di un dialogo diretto di alto livello e il persistere di discorsi d’odio sono tutti segnali di allarme che non possiamo ignorare».
Si parla poco di questo conflitto, ancora meno del ruolo che il Ruanda gioca. C’entrano sicuramente la questione etnica, i già citati contrasti tra le minoranze Hutu e Tutsi, ma, anche questi già toccati, temi economici derivati dalle ricche disponibilità del Nord Kivu. E la stessa considerazione del Ruanda come Paese sicuro e war-free ha alimentato, nel corso degli ultimi anni, un triangolo commerciale che collega l’Est del Congo, il Ruanda stesso e gli Emirati Arabi Uniti. Svariati report raccontano come oro e altri materiali quali il coltan (dal quale si estraggono minerali fondamentali per la produzione degli smartphone) vengono estratti, tramite politiche di sfruttamento, e trasportati in canoa sul lago Kivu, per poi viaggiare indisturbati, aggirando le dogane, fino in Ruanda, nascosti in «compartimenti segreti».
Di fatto, le miniere del Paese sono definite «circoscritte» e «poco redditizie». Eppure, le esportazioni di tonnellate di materiali “insanguinati” che finiscono dritti dritti nelle gioiellerie di Dubai sono alle stelle. I proventi di tali movimenti servono proprio a finanziare la sussistenza delle milizie attive nel North Kivu, come l’M23. Il Ruanda agisce da tramite, lavorando a stretto contatto con i ribelli, e non a caso l’anno scorso ha svelato la sua prima raffineria d’oro, per lavorarlo e poi esportarlo negli Emirati Arabi Uniti, rivenduto a prezzi contenuti poiché non viene pagata alcuna imposta ai trafficanti africani.
Continuare a considerare il Ruanda un Paese sicuro risulta dannoso sotto svariati punti di vista. «Non c’è nessun altro oltre a Lukaku per fare luce sulla guerra in Congo?» si chiedevano i giornali francesi. Una domanda retorica, ma la cui risposta, al momento, sembra difficile da dare.