di Cesare Catà (huffingtonpost.it, 29 gennaio 2020)
Non solo gossip. C’è qualcosa di atavico e di fiabesco dietro alla tempesta mediatica scatenata dalla decisione di Harry e Meghan di rinunciare ai loro titoli reali. Anzitutto, lo storytelling su Harry e Meghan si lega a una questione inscritta nel cuore della storia e della coscienza collettiva inglesi.
Sto pensando all’immagine del Re che rinuncia al proprio status. Sui ribelli cappelli rossastri di Harry non poggia il peso della sacra corona, né è verosimile ipotizzare che gli eventi avrebbero mai portato a un simile scenario, ma questo poco importa: lui (e la sua sposa) sono delle royal highness, con tutto ciò che questo implica, non solo sul piano sociale, ma soprattutto su quello simbolico. Per quanto ormai svuotato nella nostra era di disincanto, essere una royal highness mantiene comunque, soprattutto nell’inconscio collettivo britannico, qualcosa di magico. E – proprio per questo – c’è un alone sinistro, apocalittico, dietro alla rinuncia volontaria di un’Altezza Reale al proprio titolo.
In origine fu Riccardo II ad abbandonare, spodestato da suo cugino, il trono sacro. Era il 1399, e Shakespeare avrebbe raccontato due secoli dopo questa storia in una delle sue tragedie più belle e più complesse. È significativo che, in tutta la storia del teatro elisabettiano, non privo di scene terribili, vi sia un solo caso di vera e propria censura: la scena unica del Quarto Atto del Richard II, in cui Shakespeare metteva on the stage la rinuncia alla corona da parte di Riccardo. La detronizzazione volontaria è un tabù. È una sorta di atto contro-natura che scuote un totem, ovvero la sacralità magica del Regnante. Anche quando a rinunciare non è propriamente il Re, ma un suo strettissimo congiunto, come nel caso di Harry.
È dalla rinuncia al trono di Riccardo II che si scatena, non a caso, la fratricida Guerra delle Due Rose. “Attenti, ora, a come disfarò me stesso. Mi tolgo questo pesante peso dalle tempie. Con le mie proprie lacrime, lavo dalla mia fronte l’unzione di Re”: erano parole potenti quelle che Shakespeare faceva pronunciare al suo Sovrano abdicante, per il quale il Bardo coniava un verbo: unking, “non-farsi-più-re”, potremmo tradurre. Una sorta di atto maledetto, satanico, che spezza il legame ieratico che connette Re, sudditi e divinità. Il Sovrano, creatura divina, rinunciando al trono diventa un mero uomo, e così commette un sacrilegio. Si suicida nel suo corpo eterno.
Facciamo un salto nella storia inglese di quasi sei secoli: dal 1399, quando Riccardo II rinuncia alla Corona lasciando sul trono Enrico IV, al 1936, cioè quando è Edoardo VIII a compiere il medesimo atto. Rivive nella storia d’Inghilterra l’incubo abissale dell’unkinging. Nel caso di Edoardo c’erano di mezzo pure una donna, nonché una storia di spionaggio e di legami con i gerarchi nazionalsocialisti. L’attuale Regina Elisabetta II fu destinata al trono per via di quel dramma, perché riempire la vacanza sacrilega di Edoardo VIII – che sceglieva di essere semplicemente il Duca di Windsor e, soprattutto, il marito di Wallis Simpson – diventava compito di Giorgio VI, padre di Elisabetta. La quale, dunque, ben conosce cosa significhi la rinuncia al titolo regale.
Meghan Markle è una Wallis Simpson in una sciapida versione da Millenials? È forse un giudizio troppo maligno e torvo. Più precisamente, nella vicenda di Harry e Meghan credo che si mostri un secondo archetipo oltre quello del Re abdicante: quello della principessa triste. Ecco un’altra immagine che alla storia britannica è profondamente familiare: quella di una regnante rinchiusa in una gabbia d’oro, dallo spirito ribelle, la cui malinconia crea una connessione imprevedibile con il popolo, come se quella sofferenza nobilitasse, rendendolo in qualche modo divino, il soffrire quotidiano di ogni suddito.
A Lady Diana riuscì, in parte inconsapevolmente, questo incantesimo rivoluzionario. Diana impersonò in maniera sublime un archetipo dal portato inimmaginabile; il medesimo che, in un’altra era, si era incarnato in Sissi, Elisabetta di Baviera. Meghan, vera attrice protagonista della recente abdicazione di Harry, sta mettendo in scena proprio questa parte. Resta da vedere, per l’appunto, se ne sia all’altezza; se, cioè, si tratti di una strategia di marketing di un’abile donna di comunicazione (e in tal caso questa storia finirà nello squallore come altre derive, più o meno recenti, di Casa Windsor: si pensi alle scandalose vicende di Andrea o di Margaret); oppure se, più profondamente, vi sia appunto dell’altro, una sostanza umana, la materia di una storia shakespeariana, alla base della rinuncia di Harry.
La Regina Elisabetta II non ha voluto compiere, in questa storia, l’errore commesso con Diana. Non si è opposta. Ha avallato con severa e compostissima disapprovazione l’alzata d’ingegno dei Duchi del Sussex. Ma nello sguardo fermo di Elisabetta II, immobile come il trono sacro di Londra, sembrano quasi pronunciate, tacendo, le parole che il vecchio John di Gaunt, nel Riccardo II, rivolge al giovane sovrano in procinto di rinunciare al trono: “Io vi vedo moribondo: il vostro letto di morte è l’Inghilterra, dove giacete malato nella mancanza di affetto da parte dei vostri sudditi, e non vi volete curare. Ricordate che il mondo non è vasto come il perimetro di questa sacra corona”.