di Adele Sarno (huffingtonpost.it, 13 gennaio 2021)
Che due amministratori delegati abbiano staccato la spina agli account Twitter e Facebook di Donald Trump ormai è cosa nota. Anche il motivo lo è: durante l’assedio di Capitol Hill il presidente in carica Trump buttava benzina sul fuoco, incitando i suoi sostenitori con una serie di tweet, continuando ad affermare falsamente che le elezioni erano state truccate. Mark Zuckerberg e Jack Dorsey sono intervenuti e hanno preso la decisione che ha stupito tutti: bloccare i profili social del Presidente. Questa operazione dei Big Tech oggi ha aperto il dibattito: può un ceo decidere cosa si possa fare o meno sui social network? È giusto o sbagliato? I social network sono uno spazio privato, pubblico o privato ad accesso pubblico, come lo può essere, per esempio, una palestra? Twitter e Facebook hanno fatto bene a chiudere gli account di Trump?Luciano Floridi è una delle voci più autorevoli della Filosofia contemporanea, è professore ordinario di Filosofia ed Etica dell’informazione all’Università di Oxford, dove dirige il Digital Ethics Lab, è stato chairman del Data Ethics Group dell’Alan Turing Institute, l’istituto britannico per la data science e l’Intelligenza Artificiale. Da molti anni i suoi studi indagano il mondo del digitale. Per questo gli abbiamo chiesto di spiegarci in che modo i social network agiscono sulla nostra vita e sulla nostra libertà di espressione. E di fare un passo avanti, e di aiutarci a capire quale sia la loro natura.
«Queste piattaforme hanno un impatto profondissimo. La nostra vita oggi trascorre onlife (né online né offline), dove tutto è sempre connesso, all’interno di uno spazio digitale e analogico, fatto di comunicazione e di relazioni, che si può chiamare infosfera. Questa infosfera è un luogo nuovo e si basa sulla circolazione delle informazioni, qui chi controlla le informazioni ha le chiavi di tutto. Per questo servono regole chiare. Che non lascino decisioni così fondamentali alle grandi aziende Big Tech della Silicon Valley. Non credo affatto facciano un pessimo lavoro, ma certamente non è quello che ci aspettavamo negli anni Novanta».
Professor Floridi, c’è il pubblico, il privato e il privato aperto al pubblico. Cosa sono oggi i social network? Tentare in ogni modo di farli rientrare in una di queste tre categorie non rischia di essere una forzatura che ci spinge a tutti i costi a incastrare in vecchie categorie qualcosa di nuovo? Di che spazio stiamo parlando?
«È una delle questioni fondamentali che riguarda il mondo dei social network: chiederci oggi quale sia l’ontologia di questo spazio ci aiuta a scrivere il capitolo due della storia. Diciamolo subito: questo spazio non è né pubblico né privato, è l’infosfera, uno spazio relazionale. Non è fisico, non è virtuale. Non è Netflix, non è un game. Questa infosfera è un luogo completamente nuovo, fatto di regole e di protocolli che lo definiscono. Per questo va gestito in maniera intelligente».
Ci aiuti a capire meglio.
«L’analogia più vicina è quella con la “tragedy of commons”, cioè la “tragedia dei beni comuni”. I commons non erano spazi né pubblici né privati, ma una risorsa collettiva e condivisa, dove i pastori portavano a pascere le proprie pecore. Se ciascun pastore persegue solo il proprio interesse razionale, alla fine tutti perdono, perché le pecore di ogni pastore consumeranno il più possibile, senza tener conto dei costi collettivi e alla fine non ci sarà più nulla da brucare per nessuna pecora. Per analogia potremmo parlare di “commons digitali”, se chi vive questi spazi agisce solo in base al proprio interesse personale, comportandosi in modo contrario al bene comune di tutti gli utenti, allora quella risorsa viene esaurita. All’inizio degli anni Novanta c’erano grandi aspettative in quello che era allora il cyberspazio: comunicazione, trasparenza, coinvolgimento politico, tutti ingredienti buoni che sono ancora lì. Ma poi c’è stato il web, la commercializzazione, il mercato, ed è iniziata l’erosione di questi commons, cioè di questi spazi comuni dove oggi ci si scontra a colpi di app e accounts”.
Quindi possiamo dire che i social network sono parte di uno spazio nuovo che è l’infosfera.
«È uno spazio che dobbiamo accettare che esista. È come se fossimo sbarcati in un continente nuovo e avessimo deciso di darlo in mano alle aziende. Queste grandi potenze stanno determinando il modo in cui noi percepiamo il mondo e possiamo interagire con esso. Per questo è fondamentale creare nuove regole. L’ontologia dello spazio è il primo punto fondamentale. Il secondo è quello della fiducia nelle istituzioni che dovrebbero andare a riprendersi la sovranità digitale nello spazio relazionale, dettando appunto le regole del gioco. Questo è il secondo capitolo della storia che stiamo scrivendo. Il punto non è tanto Facebook o Twitter che bannano il Trump di turno, il punto è che la legislazione europea sta arrivando».
A che punto è la legislazione europea?
«Per regolamentare queste piattaforme l’Europa ha presentato nelle scorse settimane il Digital Service Act e il Digital Market Act, rivendicando una leadership nell’adozione di leggi che limitino fenomeni come l’incitamento all’odio e attacchi razzisti online, istigazione alla violenza, fake news e altri contenuti illegali. Meglio non lasciare mano libera a una nuova oligarchia digitale, i vertici delle Bigh Tech, a stabilire le proprie regole in maniera anarchica. Ma quello che va letto con attenzione è l’articolo 20. L’impostazione riprende dal regolamento Gdpr (il Regolamento Generale sulla Protezione dei Dati personali) un punto fondamentale: sgancia la legislazione dalla localizzazione. In altre parole, se l’utente è europeo si applica la legislazione europea. Questo è il XXI secolo: ovunque tu sia, se i tuoi dati sono europei si applicano le regole europee».
Perché si parla di social network e di leggi proprio adesso?
«In tutte le trasformazioni storiche identifichiamo il fatto che rappresenta il punto di svolta. Il blocco dell’account di Trump è la scintilla, il momento di luce che ha fatto sì che trent’anni dopo la nascita di Internet tutti si accorgessero, e non solo il filosofo, che chi fa le regole fa il gioco. Che Google, Facebook, Twitter, Microsoft, Apple e le varie aziende digitali (si pensi ad Amazon) gestiscono quella che in passato si chiamava il cyberspazio. Quello del blocco sui social di Trump è la tempesta perfetta. La questione ha fatto tanto rumore perché ad essere silenziato è stato il presidente degli Usa. Ma anche perché lui è stato silenziato nel momento in cui tutti erano online su Zoom, su WhatsApp, costretti dalla pandemia a passare la propria vita online, nell’infosfera. Quando Trump è stato segnalato per i fatti di Minneapolis, lo scorso maggio, non se ne è parlato molto, perché l’opinione pubblica non aveva la maturità per capire cosa stesse accadendo. Paradossalmente, dovremmo essere grati a Trump. Se non avesse spinto così gravemente non ci sarebbe stata la rottura e oggi non staremmo a discutere come riparare a tutto».
Anche il nuovo contratto utenti WhatsApp va letto in questa chiave?
«È la stessa storia. È la spinta di queste grandi aziende alla conquista di questo spazio. La sovranità digitale si esercita in tanti modi, nella sicurezza, nella salute, nel controllo dei confini, nella scuola: oggi tutti questi ruoli vedono il digitale in prima linea, il digitale è in mano alle aziende, quindi possiamo dire che la sovranità digitale è in mano ai Big Tech. E per mantenerla fanno quello che possono».
Quali sono le modalità per chiedere a Facebook, Twitter, Microsoft, Google, di fare un lavoro migliore?
«Serve maggiore controllo. E questo si può operare con quattro leve: legislazione, autoregolamentazione di settore, la pressione sociale della pubblica opinione e le regole di mercato, in questo caso soprattutto con la competizione. Dobbiamo riempire questi quattro bicchieri, oggi di questi solo due sono mezzi pieni. Cioè quello della legislazione europea e quello dell’opinione pubblica che sta iniziando a porsi il problema. L’autoregolamentazione è praticamente inesistente, e lo stesso discorso vale per la concorrenza. Noi europei stiamo agendo sulla legislazione in maniera ottimale. Gli americani forse non riusciranno a fare lo stesso, ma sulla competizione i segnali di cambiamento ci sono. Mi stupirebbe se non si arrivasse a rivedere la legge antitrust.
In che modo la competizione può arginare il potere di Twitter o Facebook?
«Se avessero dei competitor seri probabilmente agirebbero diversamente. Io credo che cambierà la legislazione dell’antitrust americano: perché è novecentesco, basato sul valore economico dei servizi, non sociale. L’idea è che se due aziende si legano e portano un vantaggio ai clienti va benissimo, se c’è lo svantaggio allora no. Serve un antitrust basato sul valore sociale in grado di valutare quanto la fusione tra due aziende possa impattare sulla tenuta della democrazia o sul pluralismo dell’informazione, per esempio. Il giorno dopo che Facebook sarà costretto a vendere WhatsApp, Zuckerberg dovrà misurarsi con una azienda seria e quindi comportarsi diversamente rispetto ad oggi».
Una previsione per il futuro?
«Vedo un potenziale scollamento dell’Europa dagli Stati Uniti, dalla Russia e dalla Cina. Abbiamo un’ottima legislazione sulla Gdpr, serve qualcosa di simile sul 5G, sull’Intelligenza Artificiale e sui social media. Una volta che abbiamo chiuso l’arco, l’Europa sarà un luogo a sé stante con un approccio più democratico. Avendo staccato la legislazione dallo spazio fisico, potremo dire a chi vende i prodotti quali sono le regole, riappropiandoci così della sovranità digitale dell’infosfera. Quello spazio onlife, né pubblico né privato, ma “commons”, in cui viviamo».