di Francesco Russo (agi.it, 4 giugno 2020)
Fino a pochi anni fa, Facebook doveva rispondere alle accuse di essere troppo schierato sul fronte democratico, soprattutto dopo che alcuni ex dipendenti, nel 2016, avevano rivelato al sito specializzato Gizmodo di limitare di proposito la presenza di testate conservatrici nel servizio “trending news”. Twitter, dal canto suo, veniva spesso criticato per il campo libero offerto all’estrema Destra e ai “contenuti di odio” prima del recente repulisti. Oggi, mentre la protesta per la morte di George Floyd infiamma gli Usa, i ruoli sembrano quasi invertiti.
Il “libertario” Jack Dorsey, numero uno di Twitter, riceve lodi da Sinistra per aver marcato un tweet di Donald Trump come “contenuto che glorificava la violenza”. Nel cinguettio il presidente degli Stati Uniti aveva riesumato un vecchio ritornello, popolare in campo segregazionista: «When the looting starts, the shooting starts». Ovvero: «quando iniziano i saccheggi», che in Usa si accompagnano alle giornate di mobilitazione antirazziale, «s’inizia a sparare». Il “liberal” Mark Zuckerberg, dal canto suo, ha ritenuto di non censurare né etichettare tale contenuto sulla sua piattaforma. Ed è finito nell’occhio del ciclone.
Una contestazione senza precedenti
Il lunedì e il martedì scorsi sono stati probabilmente i giorni più difficili della carriera di Zuckerberg come numero uno del social network più frequentato al mondo, ancora più duri di quelli del caso Cambridge Analytica. Mai, infatti, i suoi dipendenti avevano messo in discussione la linea dell’azienda in maniera così dura. Il 1° giugno quattrocento lavoratori hanno inscenato uno sciopero virtuale, due si sono licenziati e altri hanno minacciato di farlo. Alcuni manager di alto livello – altra cosa mai accaduta prima – hanno, invece, manifestato aperto biasimo per la decisione del capo di non moderare la retorica del presidente, che ha sempre avuto un rapporto difficile con i pezzi grossi della Silicon Valley, il cui orientamento politico è sempre stato, quasi all’unanimità, filodemocratico. Il giorno dopo Zuckerberg ha provato a difendere la sua decisione in una teleconferenza con i dipendenti, durante la quale, a giudicare dagli estratti pubblicati da ReCode, si sono raggiunti momenti di fortissima tensione.
Affermando di comprendere come la sua scelta avrebbe irritato molte persone, Zuckerberg ha spiegato di aver condotto ricerche approfondite sulla storia di quella frase e di averne trovato “problematiche” le implicazioni. Nondimeno, non ha ritenuto di dover prendere provvedimenti in quanto il contenuto non risultava etichettabile come incitamento alla violenza. Ovvero, nelle parole di Zuckerberg: «non mi è parso un fischio per cani che spingesse i vigilanti a fare giustizia da soli». Ciò non significa però, ha avvertito, che Facebook non censurerà mai il presidente. «Questo episodio non vuol dire che Trump può dire quello che vuole o che lasceremo le autorità e i politici dire qualsiasi cosa vogliano». Semplicemente, a suo giudizio, non era questo il caso.
La risposta alle domande dei dipendenti ha, però, assunto presto i connotati di un processo. C’è chi ha puntato il dito sul meccanismo di consultazione interna che ha portato alla decisione, giudicandolo di scarsa trasparenza. E c’è chi ha chiesto a Zuckerberg quante persone di colore fossero state coinvolte nella decisione (una sola: Maxine Williams, la “global diversity officer”). Vecchio problema quello del sistema delle quote per le minoranze nel capitalismo, digitale e non.
In gioco il ruolo dei social network
Alternando toni risoluti ad altri più conciliatori, Zuckerberg ha assicurato che, qualora la situazione di tensione sociale si prolungasse, Facebook potrebbe ricorrere a strumenti più articolati della semplice cancellazione di un post controverso come, ad esempio, l’etichettatura, cosa che sarebbe davvero ironica in quanto si tratterebbe forse della prima volta in cui Facebook copia Twitter e non viceversa.
In questa controversia, destinata a proseguire e svilupparsi, la problematica politica non è nemmeno quella principale. Se è vero che decidere di censurare o meno una frase del proprio capo di Stato è una responsabilità enorme, la questione va ancora oltre e riguarda la responsabilità dei social network sui contenuti attraverso di essi condivisi; ovvero, la possibilità che i social network assumano i connotati di vere e proprie aziende editoriali. È quello che accadrebbe se Trump attuasse la modifica legislativa minacciata nel tentativo di rimettere in riga Dorsey. Ma a temere uno scenario del genere, e le incombenze che ne deriverebbero, è sempre stato – e dichiaratamente – Zuckerberg.