di Fabiana Giacomotti (ilfoglio.it, 9 settembre 2022)
Nessuno più di Elisabetta II, forse solo quella non parente Tudor che per prima portò il nome sul trono di Saint James, conosceva il valore profondo, simbolico, feticista nel senso originario, cioè para-religioso, del sostantivo “insegna”. In signo, in hoc signo vinces. Tutti rappresentano e definiscono la stessa cosa: le in-segne, cioè il segno visibile del potere. Qualunque esso sia: il camice del medico, la divisa militare, la corona.
L’in-segna è al tempo stesso simbolo e apparatus, per citare un altro termine latino che noi usiamo solo in declinazione politico-burocratica (l’apparato burocratico, appunto) e l’Inglese, anzi l’Americano, nella sua valenza vestimentaria: “apparel” e che indica gli abiti, perlopiù formali. Apparire, con i segni del potere, nell’ambito del protocollo e delle prerogative reali, senza dimenticare sé stessi sotto quel peso, anzi gestendolo con nonchalance. Chi crede che la regina Elisabetta “non cambiasse mai il proprio stile”, o “fosse nota per i suoi cappellini stravaganti”, nulla conosce del lungo e difficilissimo apprendimento della simbologia del vestire.
Che per i capi di Stato, e ancor più per i sovrani, destinati come nel suo caso a un regno lungo settant’anni, è fondamentale. Segnalare sempre e ovunque il proprio ruolo, senza annullare al contempo la propria personalità, è frutto di intelligenza, cultura, anche di un pizzico di gusto per lo spettacolo. Uno spettacolo fatto per durare, per andare in scena un numero infinito di volte per la massima e costante soddisfazione del pubblico (pagante, fra l’altro).
Al di là delle ovvietà sui cappellini (ormai tutti hanno capito che il loro colore e la loro forma avevano lo scopo di segnalare al servizio di sicurezza dove la regina si trovasse in qualunque momento durante le cerimonie ufficiali) e dei segreti molto rivelati sulla segnaletica delle borsette (quando Sua Maestà l’appoggiava a terra lanciava un segnale: era ora di chiudere l’incontro o di scortarla all’uscita), Elisabetta II aveva un gusto preciso per gli abiti, neanche troppo classico, e osservandoli nelle foto un anno dopo l’altro si capisce che variava, eccome, sia nel taglio sia nelle tinte e nei “pesi”.
Da due decenni del suo guardaroba si occupava Angela Kelly, nata a Liverpool, conosciuta durante un viaggio di Stato in Germania, dove si occupava dell’andamento della casa dell’ambasciatore britannico di quegli anni, Christopher Mallaby. In quell’occasione, Mrs Kelly entrò in contatto con la capo sarta dell’entourage della regina, Peggy Hoath. Ne nacque un rapporto che è durato fino a poche ore fa, coronato da una piccola epifania pubblica durante una sfilata di giovani talenti inglesi: Mrs Kelly venne fatta sedere accanto ad Anna Wintour e alla sua datrice di lavoro. Il mondo si interessò a lei, perlopiù fantasticando (si conosce una sua sola intervista, rather dull, come direbbero gli inglesi, insomma noiosa).
Vestita come ogni sovrana di tutti i tempi da designer e sarti locali, con la sola notevole eccezione di Roger Vivier che le confezionò le scarpine per l’incoronazione nel 1953 (l’abito era di Norman Hartnell, lui stesso aveva ricamato un quadrifoglio nel punto dove la sovrana avrebbe posato la mano durante la cerimonia, lei lo scoprì molti anni dopo), Elisabetta è stata un’influencer involontaria e potentissima, un particolare che si trascura sempre salvo rendersi conto che se indossiamo ancora certi marchi e certi stili con sicurezza lo dobbiamo a lei: le organze dell’adolescenza, fotografate da Cecil Beaton e diventate “divisa” per tutte le jeunes filles en fleur d’Europa, i foulard annodati sotto il mento della maturità, le cerate da pioggia, gli stivali di gomma.
Ogniqualvolta qualche stilista li porta in passerella, l’editoria di moda rispolvera le decine di foto scattate nel castello di Balmoral. Eppure, a distinguere il suo stile da quello di qualunque altro sovrano di tutti i tempi è ancora un altro aspetto, ed è lo spirito, l’ironia. Lo spot con Daniel Craig per le Olimpiadi. L’adorabile duetto con l’orso Paddington per il Giubileo, pochi mesi fa, attorno a un sandwich alla marmellata. È quello che sfugge agli influencer per mestiere: l’ironia.