di Andrea Trapani (ilfoglio.it, 30 luglio 2022)
L’Ungheria è la nazione non organizzatrice di Giochi Olimpici che ha vinto più medaglie. Un record sconosciuto ai più ma che è la base migliore per raccontare il rapporto tra lo sport e la forte identità ungherese che, in questi anni, è spesso in primo piano nelle cronache internazionali. Un percorso nello sport magiaro attiva tanti ricordi, a partire dal mito della “Aranycsapat”, la squadra d’oro, quella nazionale di calcio invincibile che non vinse mai (quasi) niente, fino al dominio nella pallanuoto e nella scherma. Gli atleti ungheresi hanno vinto un totale di 512 medaglie ai Giochi olimpici estivi e 10 ai Giochi olimpici invernali. Tutto questo nonostante la geografia, almeno in teoria, non aiuti: novantatremila chilometri quadrati e quasi dieci milioni di abitanti, eppure si parla di una potenza dello sport in rapporto alla sua piccola dimensione.
Tra storia, calcio, pallanuoto e canoa le storie da raccontare non mancano. Anche la politica lo sa bene, a partire da Viktor Orbán che è un appassionato sportivo. Con tante incongruenze tra il suo conservatorismo sociale e nazionale, nonché la mirata opposizione all’immigrazione, che in questi anni hanno attirato una significativa attenzione e critica internazionale. La storia del popolo ungherese è lunghissima, l’ultimo capitolo è iniziato nel 1990, quando è caduto il Muro di Berlino, dando una nuova centralità, anche geografica, agli ungheresi che – finalmente, secondo loro – sono tornati a far parte della Mitteleuropa senza essere più un Paese dell’Est. In tutto questo esiste un punto fermo: il calcio che arriva nell’Impero Austroungarico alla fine del XIX secolo per non andarsene più. Per più di ottant’anni, fino agli anni Sessanta, l’Ungheria è sinonimo di fuoriclasse, campioni e bel gioco. Prima squadra non britannica a violare Wembley (il famoso 6-3 del novembre del 1953 bissato dal clamoroso 4-0 di poche settimane fa) e due finali mondiali disputate, entrambe perse. Nella seconda, nel 1954, contro la Germania, per i tedeschi va in scena il “miracolo di Berna”, per i magiari una tragedia sportiva. La “squadra d’oro”, guidata da Ferenc Puskás, capitano della Honvéd, e da Nándor Hidegkuti, perde 3-2. Potrebbe essere solo un evento da cui ripartire, invece è la fine di una storia. Molti, come Puskás, rimangono all’estero e vengono squalificati dal regime comunista.
Ci sono altre storie leggendarie, da raccontare, come quelle nel nuoto: un paradosso dato che, nonostante non abbia sbocco sul mare, l’Ungheria ha una grande tradizione negli sport acquatici. La Nazionale maschile di pallanuoto è tra le più forti del mondo, i suoi nuotatori sono invidiati da mezza Europa, per non dire della canoa, discesa e kajak, che – oltre ad aver regalato una sfilza di medaglie olimpiche – è sport nazionale. Lo sport magiaro è un’istituzione anche nella scherma mondiale, con medaglie a gogò e campioni che ne hanno scritto la storia. Non si vive di soli ricordi, Orbán lo sa bene. In queste settimane l’Ungheria, come per l’edizione di cinque anni fa, è stata sommersa di complimenti per l’organizzazione dei Mondiali di nuoto. A maggio ha ospitato la partenza del Giro d’Italia superando anche le critiche sulle scelte di Rcs e di Urbano Cairo, rei di aver dato visibilità a una nazione discussa (politicamente) come quella ungherese. «Orbán è veramente un appassionato di sport, soprattutto del calcio», spiega Lorenzo Venuti, esperto di sport magiaro tanto da aver dedicato la propria tesi di dottorato al rapporto tra calcio e politica in Ungheria. «Non c’è solo un naturale ritorno di immagine politica, ma un vero interesse nel seguire lo sport», spiega nel raccontare i successi delle ultime manifestazioni ospitate. Non mancano gli aneddoti: ai Mondiali in Brasile del 2014 viaggiava come ospite del presidente della MLSz, Sándor Csányi, e rimase veramente scontento che lo stato di San Paolo gli avesse organizzato un ricevimento, tanto che si presentò piuttosto svogliato. Insomma, voleva fare il “semplice tifoso”.
Un rapporto difficile da scindere quello tra sport e politica. «Esiste», conferma Venuti, «ed è esploso lo scorso anno nelle partite degli Europei giocate, a Budapest, a porte aperte, mentre le altre nazioni si impegnavano a contenere l’emergenza di Covid-19. In quel caso Orbán voleva probabilmente dimostrare che la sua campagna vaccinale, grazie agli accordi con Cina e Russia, stesse funzionando molto meglio che nel resto dell’Unione Europea». Una sfida nella sfida, quella tra Ungheria e Ue. La voglia di emergere nel palcoscenico politico corre accanto alle ambizioni sportive. Con una fondamentale differenza. Che gli ungheresi puntano davvero a tornare protagonisti, con campioni e squadre nazionali da seguire. Una vera ossessione, per esempio, sono le Olimpiadi. Un sogno inseguito già negli anni Cinquanta, quando fu realizzato, e inaugurato nel 1953, il Népstadion (lo Stadio del Popolo, N.d.R.), che alla fine rimase solo come simbolo di grandezza: la scelta del Cio per il 1960 ricadde su Roma con Budapest addirittura terza, dietro Losanna, nel primo giro di votazioni. Sono passati decenni, ma non è cambiato l’obiettivo: negli scorsi anni si è puntato ai Giochi olimpici del 2028, poi assegnati a Los Angeles, ma proprio Orbán ha deciso di ritirare la candidatura, in polemica con le forze di opposizione e i movimenti contrari, affermando che, per ospitare un evento del genere, serve una vera e propria unità nazionale.
Unità nazionale che l’Ungheria riesce ad affermare, compresi alcuni paradossi, proprio nello sport. Il ritorno alle medaglie olimpiche invernali è merito di una serie di naturalizzazioni della comunità cinese. Ben accetti, storicamente, sono gli ungheresi figli delle minoranze all’estero: va bene anche la storia di Loïc Nego, il calciatore francese (naturalizzato) che ha regalato la seconda qualificazione consecutiva agli Europei. Successi sportivi e organizzazione impeccabile sono un connubio imprescindibile per il governo ungherese. «Ci sono due fattori che Orbán sta portando avanti», spiega Venuti. «La voglia di Olimpiadi, per esempio, si spiega bene perché riuscirebbe a realizzare due obiettivi importanti: il primo, far tornare l’Ungheria ai fasti del passato con un prestigio internazionale riconosciuto da tutti. Dall’altra parte, non manca la voglia di agevolare la crescita edilizia della Capitale e di tutta la nazione: Budapest già adesso è un cantiere a cielo aperto, un evento mondiale permetterebbe di sviluppare gli affari più lucrosi per coloro che sono tra i personaggi più vicini al presidente». Anche in questo caso seguendo un’altra eccellenza ungherese, quella del design. Questa però è un’altra storia.