Lo scontro tra Grillo e Conte è la degna conclusione della più clamorosa presa in giro della politica italiana

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di Mario Lavia (linkiesta.it, 25 ottobre 2024)

Morire per Beppe Grillo? O morire per Giuseppe Conte? Per chi tifare: per il buffone che soffiò sul fuoco populista (la Casta, la Casta!) o per l’azzeccagarbugli passato dai decreti Salvini alla critica da sinistra a Kamala Harris? Meglio il Movimento dell’uno vale uno o il Partito a-valoriale e trasformista? Sono alternative false. Il Comico e l’Avvocato sono due facce della stessa medaglia, come dice Robert De Niro ad Al Pacino ne La sfida – solo che questi sono due miti, quelli due ominicchi.

Se oggi si dividono non è per ragioni politiche, ma per soldi, miserabili soldi, trecentomila maledetti euro, forse l’equivalente dei trenta denari, roba da povirazzi, nel senso camilleriano di poveri di spirito oltre che di bisognosi di denaro. È finita, stop. Che goduria, Conte ha informato Grillo di avergli tolto il contributo via Bruno Vespa (il solito libro, Natale si avvicina), cioè il cantore di Prima, Seconda e Terza Repubblica: «è responsabile di una contro comunicazione che fa venire meno le ragioni di una collaborazione contrattuale» ha sentenziato l’avvocato di Volturara Appula; con il che Casaleggio junior ha chiuso i giochi: «Del Movimento Cinque Stelle è rimasto solo il nome».

Va dunque a chiudersi la più clamorosa presa per i fondelli che la politica italiana, pur così ricca di inventiva grottesca e personaggi con il naso rosso dei clown, abbia inventato dal dopoguerra a oggi. Un Movimento che aveva la pretesa di spiegare al mondo come si deve stare al mondo, l’arroganza di ergersi a giudici innestando la politica sulla pianta sempreverde del moralismo, salvo fare soldi in ogni modo, tra editoria e software e chissà che altro, elevando al rango di dirigenti politici gentarella senza arte né parte – i famosi scappati di casa – che, annidata tra i frizzi di Beppe e le allucinazioni di Casaleggio padre, aveva trovato il modo di sbarcare il lunario.

Si disse che era la post-politica, ed è vero, talmente post che subito divenne l’antipolitica e dunque, come tale, l’anti-democrazia, indossando rapidamente i panni della Casta populista, ossimoro fantastico: noi diciamo a voi che loro fanno tutti schifo. Di questo pasticcio tra il sudamericano e il mediorientale il trasformismo divenne l’ingrediente vitale, e forse il Comico, già sulla strada di una depressione legata al declino artistico, non si avvide dell’errore fatale di trasformare il Movimento in Partito perché esattamente lì si stagliò la figura di Conte, perfetta per rinverdire un certo tipo di trasformismo meridionale – come ha notato Sabino Cassese – basato sull’indifferenza tra destra e sinistra purché il gioco valesse la candela, ossia sull’idea che fosse lecito annegare le idee nello stagno del potere.

Così l’avvocato del popolo è diventato l’avvocato dei propri interessi, forse non sempre legittimi, sostituendo piano piano ma inesorabilmente allo sgangherato tendone da circo di Grillo una macchina politicista al suo servizio fondata sull’ambiguità e l’occupazione di poltrone. A questo punto è chiaro che Beppe non serve più, ormai ridotto come il vecchio Calvero del Chaplin di Luci della ribalta, nemmeno un centesimo gli vuole dare l’avvocato, carte bollate alla mano.

Non c’è da rimpiangerlo, Beppe Grillo, per tutto il veleno che ha instillato sotto la pelle fragile della politica. Al massimo fa pena il fatto che sia stato sconfitto da un personaggio più cinico di lui, il Conte rivestito di rosso, un Fratoianni borghese che non capisce nulla tranne il fatto che deve salvare sé stesso dal naufragio del populismo a cinque stelle oggi pagato trecentomila euro con tanti saluti a Grillo e alle sue torte in faccia. E in ogni caso su quella commedia, già mediocre, può calare il sipario.

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