di Pierre Haski (France Inter / internazionale.it, 1° ottobre 2020)
Molto è stato detto su quello che il Washington Post ha definito «il peggior dibattito presidenziale nella storia degli Stati Uniti». Ma gli americani, probabilmente, sono troppo occupati o troppo inorriditi per chiedersi come questo evento televisivo sia stato percepito all’estero, dove è stato seguito con un interesse sproporzionato. Sono rimasto colpito da un tweet di un intellettuale africano, Célestin Monga, che negli anni Ottanta è stato incarcerato nel suo Paese, il Camerun, per aver difeso la democrazia, prima di trascorrere alcuni anni a Washington e successivamente tornare nel continente come capo economista della Banca africana per lo sviluppo.
Dopo aver osservato il dibattito come milioni di non americani, Monga ha riflettuto su una «performance sconfortante in un Paese che da 244 anni pratica la democrazia. Mi chiedo cosa possano pensare e imparare dall’esperienza americana quelli che in tutto il mondo continuano a lottare per i diritti politici fondamentali». Ad altre latitudini, l’ex primo ministro svedese Carl Bildt ha espresso sempre su Twitter riflessioni simili, sottolineando che «la vera perdente del dibattito tra Trump e Biden è l’immagine della democrazia americana nel resto del mondo».
Nonostante tutti i suoi difetti, la democrazia americana ha mantenuto per molto tempo un potere di attrattiva, come parte integrante del soft power degli Stati Uniti. Già nel XIX secolo Alexis de Tocqueville raccontava nel suo La democrazia in America i pregi ma anche i pericoli di un sistema che aveva studiato da vicino. Oggi ci accorgiamo di quanto le istituzioni degli Stati Uniti, dopo aver resistito in qualche modo a quattro anni di amministrazione Trump, siano messe a dura prova, mentre aumentano i dubbi sulla capacità del Paese di portare a termine elezioni trasparenti e una transizione senza scossoni.
Un politico statunitense vicino all’amministrazione ha ammesso in privato di pregare affinché ci sia un plebiscito (per un candidato o per l’altro) e non un risultato stretto, nel timore che possano verificarsi gravi incidenti. Sentendo parlare Trump la sera del 29 settembre, il motivo di questa preoccupazione risulta evidente. Questa campagna elettorale turbolenta ci ricorda la fragilità della democrazia, anche nei Paesi più solidi e sicuramente in quelli in cerca di stabilità, ma anche la necessità di costruire istituzioni forti, durature e capaci di affrontare possibili regressioni.
Il pericolo si ripresenta anche in Europa, dove un braccio di ferro oppone l’Ungheria di Viktor Orbán alle istituzioni europee a proposito del concetto di “Stato di diritto”. Da qualche giorno Budapest blocca il piano di rilancio europeo, chiedendo di ritirare qualsiasi vincolo sul rispetto della democrazia. In questo senso non sorprende che il primo ministro ungherese speri nella vittoria di Donald Trump. Il rischio di regressione democratica, insomma, è presente ovunque, anche negli Stati Uniti. Questo è un regalo per i leader autoritari di tutto il mondo, che, forti dell’esempio statunitense, fanno di tutto per screditare l’idea stessa di democrazia.