di Guia Soncini (linkiesta.it, 13 febbraio 2024)
Ma quindi cos’è l’italianità? Include quelli coi genitori tunisini? Quelli con gli ascoltatori napoletani? Quelli che per una settimana non parlano d’altro che di Sanremo? Quelli che si vantano di non guardarlo? È più italiano chi parla dialetto o chi usa parole inglesi a casaccio? Chi si perde l’inizio del Festival perché a tavola non si guarda la tele o chi ordina sushi perché c’è Sanremo e figurati se cucino? Chi ha la residenza fiscale a Montecarlo o chi ce l’ha in Italia tanto incassa tutto in nero?
Lunedì mattina, devastata dalla privazione del sonno che ogni anno per una settimana m’induce il Festival di Sanremo, ero da un parrucchiere cinese che in negozio tiene la musica a tutto volume e a selezione casuale. È partita Angelina Mango, e lui non l’aveva mai sentita nominare. Gli ho spiegato la vittoria di Sanremo, il padre, brevi cenni del Festival duemilaventiquattro, e lui ha ascoltato con interesse. Poi gli ho chiesto cos’avesse fatto sabato sera. Aveva guardato, in streaming, il Capodanno cinese. È l’anno del Drago: anche ieri ho imparato una cosa.
Era chiaro che lì dentro nessuno di noi era un italiano vero. Non io, non lui, non Alexa che aveva scelto la Mango: tutti e tre, nel citare il Festival, abbiamo detto «Sanremo duemilaventiquattro», invece che «ventiventiquattro», come ha ripetuto decine di volte Amadeus che è così smanioso di risultare rilevante presso i dodicenni italiani – che disimparano l’Italiano guardando serie americane dalle quali comunque non riescono a imparare l’Inglese – da non sapere più dire le migliaia come si dicono in Italiano. Chissà se presto Amadeus disimparerà la terza persona, somigliando infine ai giovani italiani veri che non riescono a darti del lei non per maleducazione ma per incapacità di declinare i verbi.
Quello dell’italiano vero è stato il vero tema del Festival, e chissà come mai il discorso su Ghali e quello su Geolier sono rimasti separati, quando erano così evidentemente lo stesso discorso, lo stesso tema, la stessa difesa dei confini. Se non ci sembrano la stessa roba è solo perché a fine Novecento qui avevamo Troisi, mica Kassovitz. Il dialetto napoletano lo sentivamo da piccoli, le frasi in arabo no: forse, per cominciare a essere una società la cui multietnicità è un fatto e non un dibattito, bisogna smetterla di far finta che Bologna o Frascati siano Londra o Parigi, e venire a patti col fatto che le lingue e i colori di pelle diversi da quelli della maggioranza sono un gusto acquisito, non un paesaggio con cui chi è nato in Italia nel Novecento sia cresciuto.
Difficilmente si potrebbe argomentare che non fosse italiano il parrucchiere cinese che diversamente da me capisce il dialetto veneto; altrettanto difficilmente si potrebbe sostenere che fosse più italiano il mio non perdermi mai un minuto di Sanremo del suo non fare mai lo scontrino. Il Paese reale è più variegato di come ci sembra dal nostro angolino, persino nei consumi televisivi (tutti strabiliano per l’enormità del sessanta, settanta per cento di italiani che col televisore acceso guardano Sanremo; io mi chiedo cosa trovi mai da guardare alle due di notte l’altro trenta o quaranta).
Domenica sera, da Fazio, Concita De Gregorio ha auspicato che quelli che tengono per Ghali diventino sensibili anche ai destini del detenuto tunisino che si suicida in carcere, ma quelli lì lo sono già: è esattamente lo stesso pezzetto di Paese, quello felice perché Ghali si dice italiano vero e quello preoccupato per le condizioni dei migranti incarcerati. È con l’altro pezzo di italianità che non comunicano, un po’ come quelli che leggono cinquanta articoli al giorno su Sanremo non sanno cosa dire a chi non l’ha proprio visto. A meno che non abbiano, i primi, vocazioni pedagogiche. Io, alla mia, ho dato fondo quando il parrucchiere mi ha chiesto come si vincesse a Sanremo, se coi voti del pubblico o di qualche giuria.
È stato un momento esaltante: finalmente le ore buttate a leggere ridicole polemiche sul televoto, sulle cinque sim dei napoletani, sulla sala stampa e le radio e le percentuali e Geolier e la rava e la fava, finalmente quelle ore lì si rendevano utili. Finalmente, dopo decenni di asinitudine, sapevo la risposta alla domanda a piacere. Continuo, però, a non sapere quale sia l’italianissimo gesto che chi era in platea all’Ariston mi dice abbia fatto Ghali venerdì, arrivato alla frase «sono un italiano, un italiano vero», e la ragione per cui non lo so è che, in quel momento, le telecamere sanremesi inquadravano la platea.
Chiunque guardi i programmi americani, o anche solo i pezzettini di essi diffusi sui social, sa che il pubblico in studio è un rumore, mai un’immagine. Neanche quando – succede spesso – l’ospite si rivolge direttamente alla platea, ah ecco anche voi siete di Kansas City, neanche in quel caso la regia stacca sul pubblico. Si fa eccezione se Scorsese parla della figlia e quella è in platea, e allora la inquadri: ma è una faccia famosa, è la figlia di Scorsese, mica Sempronio di Kansas City. Credo lì valga la regola che c’era qui negli anni remoti in cui facevo la radio.
La prima cosa che ti dicevano quando cominciavi il mestiere era che i messaggi – che allora erano fax, pensa di che preistoria parliamo – degli ascoltatori percaritadiddio guai a leggerli: ogni secondo che dedichi a Tizio da Ancona è un secondo in cui chiunque non sia Tizio da Ancona stesso si annoia a morte e gira la rotellina sintonizzandosi su un’altra radio. È una delle molte cose che sono radicalmente cambiate: adesso la radio è tutta fatta coi messaggi di Tizio da Ancona, perché se ascolto i non interessanti e del tutto irrilevanti problemi del gatto di Tizio da Ancona, del matrimonio di Tizio da Ancona, del capufficio di Tizio da Ancona, allora so che, se resto sintonizzata su quel canale, prima o poi daranno spazio anche a me e ai miei irrilevanti guai. Solo se posso specchiarmi in un prodotto mi ci affeziono abbastanza da diventarne consumatrice.
La tv americana funziona sullo star system: abbiamo George Clooney in studio, perché mai dovremmo inquadrare Sempronio di Kansas City. Quella italiana funziona sullo specchio: il pubblico inquadrato si sta divertendo, applaude, se fosse a casa non cambierebbe canale; quindi, devo trovare divertente questo programma anch’io. E quindi, se mi perdo la faccia della Cortellesi quando mentre sta cantando entra la voce di Silvestri, perché in quel momento la regia di Propaganda ha ben pensato di staccare sul pubblico, se mi perdo il gesto di Ghali perché la regia di Sanremo vuol farci vedere che il pubblico che ha pagato centinaia di euro per stare all’Ariston è entusiasta come chi li ha spesi bene, mi viene il sospetto che l’italianità sia quella cosa che Fran Lebowitz sintetizzerebbe in «troppa democrazia nella cultura, e non abbastanza nella politica»: pensare che, se il popolo non ha più pane, sia d’uopo concedergli delle inquadrature.