L’Italia è come Topolinia, ma senza Mickey Mouse

di Luigi Sanlorenzo (linkiesta.it, 19 agosto 2020)

L’Italia assomiglia sempre di più alla città immaginata da Walt Disney quale scenario per il suo più famoso personaggio, ormai quasi centenario. Sembrano esserci tutti: la truce Banda Bassotti, la mediocre quanto confusionaria Minerva detta Minnie, sempre in attesa di convolare a giuste nozze, il commissario Basettoni, bonario quanto inefficace detective; non mancano quell’amico Pippo che tutti abbiamo avuto, i terricoli quanto imbranati Orazio e Clarabella, e l’inquietante Macchia Nera.

The Walt Disney Archives Photo Library © The Walt Disney Company
The Walt Disney Archives Photo Library
© The Walt Disney Company

Solo non si vede lui, Topolino, mente e azione che mettono ordine nel caos morale di una società cresciuta troppo in fretta e spesso esposta a tutte le mascalzonate. In compenso c’è Lupo, l’avvocato che tenta di impadronirsi dell’eredità di Minnie con l’aiuto del suo scagnozzo Pietro Gambadilegno. Una metafora senza tempo che tipizza ciò che accade quando la razionalità scompare dalle azioni degli uomini, lasciando il posto all’impostura e all’imbroglio.

La straordinaria invenzione del topo antropomorfo venne, come sempre nel sogno americano, a uno squattrinato Walt Disney e fu concepita in una rimessa, dove insieme al coetaneo Ubbe Eert Iwwerks, più noto come Ub Iwerks, si rifugiava la sera alla ricerca di nuovi personaggi. Ma cosa avranno questi garage americani dove dietro pile di pneumatici, latte d’olio e rottami vari considerati preziosi quanto improbabili ricambi, si annida, insieme a topi ispiratori e a mele smozzicate, il genio dell’immaginazione creativa? Così ne riporta il racconto Kathy Merlock Jackson in Walt Disney: Conversations, University Press of Mississippi, Jackson 2005: «[I topi] erano soliti lottare per le briciole nel mio cestino dei rifiuti, quando lavoravo da solo fino a tarda notte. Li presi e li tenni in gabbiette sulla mia scrivania. Mi affezionai particolarmente a un topo domestico marrone. Era un piccoletto timido. Toccandolo sul naso con la matita, lo addestrai a correre all’interno di un cerchio nero che avevo tracciato sul mio tavolo. Quando me ne andai da Kansas City per tentare la fortuna a Hollywood, mi dispiacque lasciarlo. Così lo portai in un cortile, facendo attenzione che fosse un bel quartiere, e il piccoletto domato corse verso la libertà».

In un bel cameo, Frank Darabont omaggia Disney con la citazione di un altro topo nel film Il miglio verde (The Green Mile), del 1999, ispirato all’omonimo romanzo di Stephen King. L’immenso Tom Hanks condivide il destino con il topo immortale Mr. Jingles, appartenuto al condannato Eduard Delacroix e miracolato dal gigantesco John Coffey, interpretato dall’indimenticabile Michael Clarke Duncan. Ma i ratti non erano estranei alla grande letteratura americana già dal tempo di Uomini e topi, il romanzo dello scrittore statunitense John Steinbeck, pubblicato a Londra nel 1937 e tradotto in italiano da Cesare Pavese l’anno successivo per Bompiani, una delle più drammatiche ricostruzioni della grande crisi del 1929 durante la quale crebbe Walter Elias Disney Jr.

Era nato quarto di cinque figli a Chicago da Flora Call ed Elias Disney; il padre era di discendenza inglese e precedentemente francese, la madre di discendenza tedesca. Cominciò a frequentare la scuola elementare di Marceline solo all’età di otto anni, in modo da andarci con la sorella. La fattoria fu venduta nel 1909 poiché il padre si ammalò e non poté più farsi carico dei lavori. La famiglia visse in affitto fino al 1910, quando traslocarono a Kansas City per ricongiungersi con i fratelli maggiori di Walt, Herbert e Raymond. Walt e suo fratello Roy lavorarono nel tempo libero nell’impresa paterna di distribuzione di giornali per contribuire alle spese della famiglia. Secondo gli archivi della scuola pubblica regionale di Kansas City seguì i corsi della scuola secondaria di Benton dal 1911 e si diplomò l’8 giugno 1917. In quegli anni fu scartato dal giornale Kansas City Star come fumettista perché considerato senza fantasia. Contemporaneamente si iscrisse a uno dei corsi dell’Art Institute of Chicago.

A sedici anni lasciò la scuola e si impegnò come autista volontario di ambulanze durante la Prima guerra mondiale dopo aver modificato, con l’aiuto di un amico, la data di nascita indicata sul passaporto in modo da poter essere reclutato. Fece parte della divisione delle ambulanze della Croce Rossa statunitense in Francia fino al 1919, come Ernest Hemingway in Italia, ai piedi del Monte Pasubio, dove ambientò A Farewell to Arms (Addio alle armi), pubblicato in italiano per la collana “Le Najadi” da Jandi Sapi, a Roma, soltanto nell’aprile del 1945. Tornato negli Stati Uniti, Walt cominciò a cercare lavoro. Aveva sempre voluto realizzare dei film e si era pure candidato per lavorare per Charlie Chaplin. Trovò un’occupazione presso l’agenzia pubblicitaria Pesman-Rubin Commercial Art Studio, per la quale si occupava del programma settimanale del Newman Theatre, percependo 50 dollari al mese.

Fallimenti e incomprensioni precedettero i clamorosi successi nel nascente mondo di Hollywood, di cui diventò presto un protagonista. La consacrazione avvenne nel 1932 con il primo Premio Oscar come miglior cortometraggio d’animazione. Lo stesso anno ricevette anche l’Oscar onorario per la creazione di Topolino, la cui serie nel 1935 diventò a colori. Disney lanciò presto altre serie, che ruotavano attorno ai personaggi di Paperino e Pluto. Contemporaneamente autorizzava la commercializzazione di prodotti derivati, tra cui i fumetti di Topolino, pubblicati anche all’estero, come in Italia, dove una serie dedicata al personaggio esordì nel 1932. Il 14 settembre 1964 il presidente Lyndon B. Johnson gli conferì la più alta onorificenza civile: la Medaglia presidenziale della Libertà, per lo straordinario contributo dato anche durante lo sforzo bellico. La sua intera vita, conclusasi prematuramente nel 1966, fu un inno al sogno americano, di cui nutrì gli ideali portando sulla carta prima e poi sullo schermo le caratteristiche principali della società statunitense per oltre mezzo secolo. Disney concepì decine di personaggi noti in tutto il mondo, ma è Topolino il suo capolavoro e di ciò ci occuperemo.

Dal garage il topo nato nel 1928 iniziò la sua corsa nel mondo, accompagnando i ragazzi americani dalle spiagge del D-Day alla giungla del Mekong e indimenticabili restano le immagini finali del film Full Metal Jacket del 1987, diretto da Stanley Kubrick, in cui un plotone di Marines reduci da una sanguinosa battaglia tra le rovine di Hue, affrontano il tramonto, cantando, come eroi bambini, il peana del topo della propria infanzia. Così ha scritto, insieme a Edmondo Berselli, l’indimenticato amico e maestro Vittorio Zucconi, che tanto ci manca, in un pezzo cult su la Repubblica del 12 ottobre 2008 intitolato La doppia vita di Topolino che compie 80 anni: «Sulle rovine di una città frantumata dalla oscenità di una guerra che ancora oggi imprigiona la coscienza di una nazione, marciando nelle vie della antica capitale vietnamita di Hue strappata dopo giorni di sangue ai nordvietnamiti, i Marines sopravvissuti, lentamente, dolcemente, come bambini spaventati che cantano da soli a letto per non precipitare nel buio della notte, intonano nel finale di Full Metal Jacket l’inno che li salverà dall’orrore di ciò che hanno vissuto. Non l’inno nazionale con la bandiera a stelle e strisce, non il canto di battaglia dei Marines con le glorie di Tripoli e Montezuma, non America the Beautiful, un salmo religioso o un pezzo di acid rock. Stanley Kubrick fa cantare loro il salmo dell’innocenza americana, l’inno del club di Topolino, M-I-C-K-E-Y-M-O-U-S-E. Quei ragazzi coperti sangue e di polvere non avevano combattuto per la libertà contro il comunismo, per Johnson contro Ho Chi Minh, ma per salvare un topo immaginario creato nel 1928 da un immigrato irlandese che non era riuscito neppure a prendere il diploma di liceo». Ciao Vittorio, riposa in pace, se puoi, “sul lato fresco del cuscino”.

Tra le città immaginarie Topolinia è infinitamente più famosa e popolare della Repubblica di Platone, della Città del Sole di Tommaso Campanella, delle Città Invisibili di Italo Calvino, della Uqbar di Jorge Luis Borges, di Macondo di Gabriel García Márquez. Del suo principale abitante ha scritto Umberto Eco in decine di saggi e grande è la ricorrenza dei temi disneyani nel romanzo La misteriosa fiamma della regina Loana, pubblicato da Bompiani nel 2004. Un libro sulla memoria perduta e ritrovata, illustrato con le immagini dei libri per ragazzi che formarono la base di una cultura onnivora e potente a cui, nei momenti di smarrimento, non possiamo non ricorrere, sempre stupiti e mai abbastanza riconoscenti. Della Topolinia di cui né Umberto Eco né Vittorio Zucconi potranno mai più scrivere, tocca a ben più misera ma volonterosa penna, si parva licet, di rintracciare, in questa circostanza, le analogie con la società italiana in cui ritroviamo i tanti vizi e le poche virtù che abbiamo imparato a riconoscere grazie ai disegni di Disney, immortali perché universali, classici perché archetipi della natura umana nelle sue molteplici e prevedibili manifestazioni. Interpretando correttamente il pensiero di Giambattista Vico, non è infatti la Storia a ripetersi quanto piuttosto i comportamenti degli umani quando, come sovente accade, non fanno memoria dei propri sbagli e ricadono negli errori che la loro natura induce a compiere, quando ad essa e non alla ragione è dato il compito di guidarne le azioni.

Topolinia, dunque, metafora della società moderna in cui la lotta tra il bene e il male è mediata dalle Istituzioni, che hanno il compito di fare barriera verso i crimini contro la legge e quelli ancor più gravi contro l’intelligenza. Esse tuttavia non possono esplicare la propria efficacia se non sotto la guida della Politica, cui spetta il primato delle idee e il conseguente indirizzo degli interventi verso la società. Nell’Italia di oggi è esercizio non arduo rintracciare alcune analogie che in forma di apologo sono presenti nei personaggi dell’epos disneyano. Topolino è sempre in lotta contro due principali nemici: l’avidità e l’imbroglio, connessi dalla stupidità dei rispettivi autori che, non a caso, finiscono sempre per fare una magra figura o una cattiva fine, mai truculenta ma educativa quanto basta per i lettori.

È il caso della Banda Bassotti. Arruolati di volta in volta da Gambadilegno, dall’avvocato Lupo, o complici di Macchia Nera, concepiscono disegni ingegnosi, a loro dire, per svaligiare banche, svuotare gioiellerie, impadronirsi di tesori nascosti di cui proditoriamente hanno ottenuto la mappa. Talvolta sono sospinti da Nonno Bassotto. Ladro di grande esperienza ed ex galeotto, è un vecchietto arzillo che ha sempre pronto un buon suggerimento per “aiutare” i nipoti a escogitare piani di ogni genere. Rude e brontolone, non perde però occasione per fare sfuriate quando falliscono un colpo. I nipoti lo seguono sempre, anche quando fanno pubblica professione di autonomia, buona solo a ingannare gli allocchi cui di volta in volta si accompagnano, travestiti ma non troppo perché l’indelebile mascherina nera ne tradisce l’identità.

Sulle loro tracce il commissario Basettoni e l’ispettore Manetta, detective ingenui e sprovveduti che ricordano l’ispettore Lestrade di Scotland Yard, tratteggiato da Arthur Conan Doyle come capro espiatorio degli insuccessi cui solo Sherlock Holmes e il deuteragonista Dottor Watson porranno rimedio, risolvendo brillantemente i casi nel cui buio essi invece brancolano. Sono l’immagine di una burocrazia ottusa atta ad obbedire anche agli atti più palesemente insulsi che la politica impone loro. Spesso si difendono esercitando l’antica pratica dell’atarassia (dal greco antico ἀταραξία: assenza di agitazione, tranquillità), ovvero con la sospensione di ogni azione che possa arrecare loro danno o disturbo futuro. Sono consapevoli che, a differenza dei politici che passano, essi restano e spesso pagano di tasca propria. Da qui l’immobilità che Democrito descrive come condizione ideale per contrastare il continuo cozzare degli atomi. Imperturbabili “culi di pietra”, assistono all’ascesa e alla caduta di intere generazioni di politici cui mostrano deferente ossequio finché sono al potere.

Pietro Gambadilegno è il nemico principale di Topolino. Personaggio in forma di orso antropomorfo, è dotato di due “spalle”, Sgrinfia e Ciccia, e spesso è vestito da capitano di nave. Un po’ patetico e sempre destinato al fallimento, Gambadilegno non sembra rubare per cattiveria; per lui e la comunità criminale di Topolinia il furto è un lavoro come gli altri, nonché una tradizione di famiglia. Nonostante gli insuccessi sembra condannato a ripetere sempre gli stessi errori e non fa alcuno sforzo per migliorarsi, seppur negli intenti criminali. Può essere il campione di quanti, in piccolo o grande formato, furbetti di ogni calibro e mariuoli di eri di oggi, considerano la comunità sociale ed economica come un pollaio dove trovare sempre la vittima designata, finendo spesso presi “con le mani del sacco”.

Ben più pericoloso è Macchia Nera, un criminale che agisce in genere nella città di Topolinia motivato, soprattutto, dal desiderio di potere e di gloria. Solitamente “lavora” da solo, oppure a capo di una banda i cui componenti non sono personaggi ricorrenti e appaiono soggiogati alla sua persona, e spesso compaiono solo in una storia. A differenza di Gambadilegno è straordinariamente intelligente, furbo, sfuggente, ma comunque infido, malvagio, crudele, arrogante e troppo sicuro di sé. Spesso firma i suoi messaggi con una macchia d’inchiostro e, essendo un “genio del male”, è in grado di costruire ogni sorta di armi e dispositivi tecnologici per realizzare i suoi progetti. Ama utilizzare l’inganno e la manipolazione per raggiungere i suoi scopi, e spesso ha ordito piani per piegare altri personaggi, tra cui lo stesso Topolino, al proprio volere.

Lupo è un avvocato mellifluo e privo di scrupoli che, presentandosi come uomo elegante e dal parlare forbito, tenta di impadronirsi con mille cavilli dell’eredità di Minnie, con l’aiuto del suo scagnozzo Pietro Gambadilegno. Nonostante il nome italiano, il personaggio non è un lupo: sembra essere un altro canide. Le orecchie indicano che non è un ratto o una donnola, come è stato scritto da alcuni fan della Disney. In occasione della ripubblicazione delle storie a strisce nella collana Gli anni d’oro di Topolino nel corso del 2010, il personaggio è stato ribattezzato Silvestro Lupo.

Talvolta anche gli amici di Topolino si rivelano fonte di guai. Lo svanito Pippo, Orazio e Clarabella, sprovveduti contadini del Mid-West, cadono spesso vittima di raggiri, equivoci e tentativi di rapimento finalizzati a ricattare Topolino o ad attirarlo in trappola. Rappresentano la credulità della parte sociale meno attrezzata culturalmente e preda del pettegolezzo sui social o in trasmissioni a ciò espressamente dedicate che fanno leva su sentimenti ed emozioni per distrarre dalle questioni vere. Sono elementi da non sottovalutare perché numericamente più rilevanti e spesso in grado di determinare il successo elettorale di quanti ne hanno condizionato il pensiero, seminando disinformazione, paura e insicurezza.

Di veri amici Topolino ne ha pochi, come si conviene all’eroe americano per eccellenza. Minnie e Pluto sono tra questi e hanno il compito di riportare l’eroe alla realtà quando rischia di uscirne. Minnie fa onore al suo nome completo, Minerva e, in attesa di più stabile e formale collocazione nel cuore dell’amato, lo accudisce periodicamente ma senza spingersi ad alcuna forma di convivenza, impensabile nell’America del tempo ed estranea al carattere del suo idolo. Topolino ne sostiene e incoraggia le ambizioni, rivelandosi anticipatore rispetto al modello domestico imperante negli Sati Uniti fino agli anni Sessanta e straordinariamente reso dall’attrice Julia Roberts nel film Monna Lisa Smile, diretto nel 2003 da Mike Newell. Pluto, cane pasticcione ma fedele, gli fa compagnia, talvolta insieme a Pippo, nelle rare occasioni di pesca, sport solitario di cui Topolino è appassionato. Per lui niente vacanze su spiagge affollate o in locali alla moda ma meditabondi pomeriggi sulle rive di un fiume, in attesa che il pesce esponga il proprio lato debole e si lasci catturare. Tuttavia il Nostro ha una riserva formidabile, un deus ex machina, che interviene nelle condizioni disperate in cui l’acume del Topo risulta insufficiente e che merita un doveroso approfondimento. Si tratta di Eta Beta, abbreviazione pratica del nome completo ed evocativo Luigi Salomone Calibano Sallustio Semiramide, in originale Eega Beeva. Il personaggio venne ideato da Bill Walsh e Floyd Gottfredson. In Italia la storia venne pubblicata sui primi cinque numeri di Topolino della Mondadori nel 1949, con il titolo Topolino e l’uomo del 2000.

Nell’esordio, il luogo da cui proviene Eta Beta è volutamente avvolto nel mistero: Topolino lo incontra, come se fosse apparso dal nulla, nelle profondità di una spettrale caverna dove in passato si sono verificate diverse sparizioni di persone; ma, oltre che provenire da un ipotetico mondo sotterraneo, è come se Eta venisse anche dal futuro, precisamente dall’anno 2447 d.C., come attesta il suo enorme orologio da taschino (si noti che la data segnata dall’orologio era esattamente 500 anni dopo quella in cui è ambientata la vicenda, il 1947), o comunque da un luogo dove il tempo scorre più velocemente. Inizialmente compare con indosso un piccolo gonnellino nero e con un fisico decisamente asciutto, piedi e mani grandi e un testone a forma di pera (proprio come si pensa che sarà l’uomo del futuro); più tardi se ne addolciscono i lineamenti, realizzando una testa dalla forma più ellittica. Eta possiede incredibili prerogative: non proietta la propria ombra, è dotato di grande forza fisica (nonostante l’esile corporatura), ha limitate capacità di precognizione e telepatia (poteri che vengono meno quando è raffreddato), ed è completamente privo di scheletro. Ha, inoltre, strani gusti alimentari: nelle storie originali americane si nutre di cubetti di ghiaccio, piume di piccione e mandarini cinesi sotto aceto che nella versione italiana vengono sostituiti da palline di naftalina. Nel parlare, antepone molto spesso alle parole che iniziano per consonante la lettera “P”, per cui, ad esempio, una normale parola come “tavolo” viene da lui pronunciata “ptavolo”; anche se normalmente lo si considera un banale difetto di pronuncia connaturato al personaggio, è vero che tutti gli individui del futuro parlano allo stesso modo: nella storia Pippo e il futuro troppo comodo (2001) viene spiegato che nel futuro i robot hanno portato la gente a impigrirsi e, per arginare il fenomeno, ci si è costretti ad anteporre la “P” alle parole per sforzarsi almeno nel parlare.

Eta Beta dorme stando in equilibrio sui pomi dei letti o sulle stalagmiti e ha, inoltre, sviluppato un’allergia al denaro: non ne comprende il valore, così, nella prima storia, arriva persino a sgranocchiarlo, ma dopo aver visto gli effetti negativi che può avere sulle persone, facendo loro perdere la ragione, inizia a odiarlo e manifesta una vera e propria allergia. Le tasche del suo gonnellino hanno una capienza smisurata, tanto che da esse riesce a estrarre all’occorrenza oggetti a non finire, anche di grandi dimensioni, come motorini, elicotteri o imbarcazioni. Se si considera che Eta Beta rappresenta lo stadio evolutivo dell’uomo dopo cinquecento anni, è interessante notare come il misterioso popolo a cui appartiene risulta sì molto intelligente, ma anche in qualche modo regredito all’età della pietra (così si spiegano l’abbigliamento succinto, l’iniziale incapacità di parlare e l’estraneità di Eta alle più semplici norme e convenzioni sociali che lo rende spontaneo, sincero e naïf). E, riflettendo sul fatto che i suoi autori scrivevano nel periodo post-bellico, è come se il buffo personaggio suggerisse che, in seguito a immani disastri nucleari, l’umanità avrebbe dovuto prendere una naturale e più appropriata strada, sostenibile diremmo oggi, per evitare di soccombere. Nonostante la sua semplicità, messa in luce dal fatto che ama giocare con lo yo-yo, Eta Beta possiede in realtà una grande mente e, se vuole, è capace di realizzare invenzioni rivoluzionarie; la prima delle quali è l’Atombrello, un vezzoso ombrellino in grado di proteggere chi lo indossa da qualunque cosa, persino dalla bomba atomica.

Eta Beta è la riserva strategica di Topolino. L’ultima spiaggia, quella dell’evoluzione, su cui resistere prima che il mondo sia travolto dalla stupidità e dalla malvagità. Tragico come l’Übermensch di Friedrich Nietzsche, è un’immagine o figura metaforica che rappresenta l’uomo che diviene sé stesso in una nuova futura epoca e che non va confuso con l’impropria traduzione italiana di Superuomo, fomite di tante sventure passate e presenti. Ma, al tempo stesso, è simpatico e visionario come il dottor Emmett Lathrop Brown, Ph.D. chiamato” Doc” di Ritorno al futuro (Back to the Future), il film del 1985 diretto da Robert Zemeckis e interpretato da Michael J. Fox e Christopher Lloyd che tante generazioni ha affascinato.

Da qualche tempo Topolino è scomparso e con lui ogni traccia di fattivo ottimismo e di speranza nel futuro, in una società depressa e demotivata che annega nel protagonismo di leader di cartapesta ma con in mano un potere pericoloso che non intendono cedere, ad ogni costo. Né migliore si prospetta l’avvenire se, nel frattempo, non riusciremo a trovare ed a convincere Mickey Mouse a tornare nella Topolinia che brucia mentre i suoi antichi nemici le ballano intorno in un sabba infernale. Quando e se ne vedremo spuntare all’orizzonte le orecchie ampie che sanno ascoltare e le zampe guantate di bianco pronte a mettersi all’opera, stiamo ben attenti a non farlo scappare di nuovo. Faremmo il gioco di Macchia Nera che, nell’ombra, striscia verso di noi, sul sentiero che l’avvocato Lupo e il succube Gambadilegno gli stanno stolidamente preparando.

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