di Simone Fontana (wired.it, 25 luglio 2019)
“Chris Wetherell ha inventato il tasto retweet. E ancora oggi si pente di ciò che ha fatto”. Si apre così un articolo di BuzzFeed News molto circolato in queste ore, dedicato allo sviluppatore che nel 2009 guidò il team incaricato di rendere più fluida la condivisione dei contenuti su Twitter e ai suoi rimorsi per un mondo che, confessa, ha contribuito a peggiorare.
Le parole di Wetherell hanno attirato non poche critiche, in particolar modo per alcuni passaggi considerati eccessivamente paternalistici nei confronti dell’audience dei social network – che lo sviluppatore paragona a un bambino di 4 anni –, tuttavia l’intervista contribuisce ad accendere i riflettori su alcune dinamiche oggi considerate comuni, ma che fino al 2016 erano quasi del tutto assenti dal nostro dibattito pubblico.
La politica in 280 caratteri
Nonostante il mea culpa di Wetherell si concentri soprattutto sulle caratteristiche strutturali e di organizzazione della comunicazione incarnate da Twitter, l’aspetto che più di tutti ha influito sul nostro presente ha ben poco a che vedere con l’architettura della piattaforma e molto più con gli utenti che la frequentano. In particolare, con alcuni utenti. Non è un mistero che il tema principale sul tavolo di Jack Dorsey e soci sia da tempo la linea da tenere nei confronti degli attori istituzionali presenti sul social network, e la definizione di una policy in grado di coniugare la lotta ai discorsi d’odio con la garanzia di diffondere comunicazioni ufficiali in maniera neutra.
Dietro quella che si configura come una riflessione di ampio respiro sul rapporto tra democrazia e sistema mediatico c’è naturalmente la condotta del presidente degli Stati Uniti Donald Trump, che dal giorno del suo insediamento ha inaugurato una campagna di sistematico abbattimento dei confini tra sé e la carica pro tempore che gli è stata affidata. Se l’amministrazione Obama nel 2015 aveva dato vita a @POTUS, l’account ufficiale del presidente degli Stati Uniti, con l’obiettivo dichiarato di “interagire direttamente con il popolo americano”, le comunicazioni della Casa Bianca vengono oggi totalmente veicolate attraverso @realDonaldTrump, il profilo personale che il magnate newyorkese eletto nel 2016 utilizza per ogni genere di esternazione, dalle considerazioni strettamente politiche agli insulti personali nei confronti degli avversari.
I rischi potenziali di una simile ambiguità erano evidenti sin dalle premesse, ma ciò non è bastato ad attenuarne le conseguenze. È cronaca di questi giorni, infatti, la serie di tweet apertamente razzisti con cui Trump ha invitato quattro deputate americane a “tornare nel proprio paese”, una retorica che Twitter non ha reputato in contrasto con la propria policy e che ha avuto conseguenze molto dirette sull’opinione pubblica. Secondo il Pew Research Center l’account presidenziale è oggi seguito da 1 americano adulto su 5: una platea complessiva di 62 milioni di persone, che in molti casi utilizzano Twitter come mezzo d’informazione. Sorprende solo relativamente, quindi, che nelle ultime ore l’aggressiva comunicazione di Trump sia finita nel memorandum difensivo di Cesar Altieri Sayoc, citata tra le cause di radicalizzazione dell’uomo che nell’ottobre scorso aveva inviato una serie di pacchi bomba all’indirizzo di personalità di spicco del mondo democratico.
Una dinamica molto simile è riprodotta in Italia dagli account social di Matteo Salvini, veri e propri aggregatori di insulti nei confronti degli oppositori politici e più volte al centro di polemiche per aver esposto alla gogna mediatica semplici manifestanti. I canali di Salvini, inoltre, presentano la stessa promiscuità già registrata dall’altra parte dell’Oceano e in diverse occasioni la comunicazione del Viminale ha ripreso dirette pubblicate dalla pagina politica del ministro dell’Interno.
Come uscire dall’angolo
Twitter rappresenta insomma l’ultima frontiera della personalizzazione politica, quella che sovrappone i leader alle istituzioni che dovrebbero servire polarizzando il dibattito e finendo per modificare il volto delle democrazie. Per sopperire all’inefficacia delle politiche di gestione delle piattaforme, sul tema è recentemente intervenuta la giustizia ordinaria americana, con una sentenza che stabilisce il divieto per Donald Trump di bloccare utenti su Twitter, per non escludere alcuni cittadini da quella che, di fatto, rappresenta in molti casi una comunicazione governativa.
E di un intervento della magistratura si è parlato anche qui in Italia, con la querela presentata dai legali di Carola Rackete nei confronti di Matteo Salvini e la conseguente richiesta di sequestro preventivo dei canali social. La via giudiziaria, in ogni caso, resta difficilmente percorribile per regolare dinamiche complesse come quelle che si instaurano in un dibattito pubblico scandito dal ritmo dei nuovi media, dove le relazioni tra individui diventano – spesso volutamente – indistinguibili da quelle tra individui e istituzioni (non a caso, dopo la sentenza del tribunale di New York, un gruppo di militanti di destra ha intentato causa contro Alexandria Ocasio-Cortez, che li aveva bloccati).
Tornando all’intervista rilasciata a BuzzFeed, Wetherell propone di “disinstallare il retweet” o di renderlo disponibile solo dopo aver letto l’articolo, così da concentrare gli sforzi di moderazione sull’audience e non più sul singolo. Ma qualsiasi intervento sulla struttura della piattaforma rischia oggi di essere poco più che un palliativo: Twitter ha cambiato irrimediabilmente il nostro modo di vivere la politica, assumendo una centralità inedita nelle scelte elettorali e nei metodi di aggregazione del consenso. Come per molte cose di Internet, resta però uno strumento, la spia di un cambiamento già da tempo in atto nel nostro modo di discutere delle cose. La risposta a questo processo potrebbe essere lunga e non necessariamente risolutiva. Potrebbe, persino, non trovarsi nemmeno su Internet.