di Daniele Biaggi (wired.it, 14 aprile 2024)
Con l’espressione influencer marketing s’intende un insieme di attività che prevede il coinvolgimento di testimonial come creator digitali, talent o personaggi pubblici, nella posizione di testare, validare e poi comunicare ai propri seguaci la bontà di un prodotto, di un servizio o di un brand attraverso i social network. Questa definizione didascalica a stento riesce però a contenere la complessità di un universo che nel mondo digitale ha raggiunto dimensioni enormi e, di conseguenza, declinazioni eterogenee.
Tentando di circoscrivere ulteriormente, si può parlare di qualsiasi attività a pagamento o in cambio merce tra un’azienda e un soggetto (sia esso un singolo o un medium; ma per il momento non complichiamo troppo le cose) della quale viene data comunicazione e visibilità attraverso le piattaforme social. Questo fenomeno si basa su un assioma: milioni di persone si fidano di coloro che seguono sui social network; rivolgersi a questi influencer che contano su migliaia (talvolta milioni) di follower, può portare al coinvolgimento di un bacino di destinatari che potrebbe trasformarsi a sua volta – è questa la “scommessa” – in visibilità, consolidamento della credibilità o, meglio ancora, vendite per il prodotto o l’azienda in questione.
E che questo assioma abbia fondamento lo testimoniano ricerche di mercato come quella condotta da Bva Doxa e Flu, parte di Uniting Group, secondo cui l’88% di coloro che frequentano Instagram si fida di chi segue o crede di avere uno spirito critico sufficientemente allenato per distinguere i messaggi di cui fidarsi o no. È il vecchio passaparola di un tempo, portato avanti oggi da figure che per i più svariati meriti sono riuscite a ottenere grandi spazi di visibilità e come tali sono ingaggiate dalle aziende per orientare opinioni e consumi.
L’influencer marketing, è chiaro fin da questo tentativo di definizione, ha molto a che fare con la pubblicità, con cui condivide alcuni meccanismi seppure con debite differenze; ha certamente a che vedere con la creatività, ma anche con il marketing, i numeri e i dati; mette in campo, cioè, competenze che rimandano a figure professionali assai diverse tra loro. Ed è per questo che intorno al business dell’influencer marketing, oggi, orbitano professionisti della scrittura, della comunicazione, della recitazione perfino, del mercato, delle pubbliche relazioni, dell’economia e dei dati. E l’elenco potrebbe proseguire a lungo.
Al termine influencer marketing è spesso associato quello di strategia. Operare nel settore significa orchestrare un piano d’azione, una campagna, i cui obiettivi possono essere vari e, spesso, convivere tra loro: far conoscere un brand, un prodotto, un servizio (awareness); aiutare un brand a rivolgersi a un nuovo target, o a modificare la sua immagine rispetto a quella che si era costruito nel tempo ma è ormai superata (positioning); instaurare un dialogo-scambio tra brand e consumatore (engagement); spingere l’utente che viene raggiunto a un’azione, sia essa un approfondimento o l’acquisto (conversion). Sulla base della tipologia di obiettivo che si vuole raggiungere, si mette in campo una strategia diversa, si coinvolgono tipologie di influencer diverse, si lavora a differenti contenuti. Tutto soggiace alle dimensioni dell’azienda e al budget previsto per questa strategia, oltre alla concertazione con altre divisioni, come quella pubblicitaria o stampa.
Gli influencer sono videomaker, fotografi, content creator (termine ombrello che raccoglie figure assai diverse tra loro), youtuber, divulgatori, personaggi televisivi che postano con regolarità – su una o più piattaforme – contenuti, e interagiscono in direct o pubblicamente con utenti e follower interessati ai temi e agli argomenti di cui si occupano. Quella degli influencer è, a tutti gli effetti, una professione, sebbene questo termine abbia spesso assunto connotazioni negative anche a causa della cattiva comunicazione fatta intorno al business; non solo perché trattandosi di un’attività retribuita non può definirsi in altro modo, ma perché, nell’ambito della influence economy, il mercato nato intorno a queste occupazioni genera a sua volta posti di lavoro e indotto.
Nell’ambiente dell’influencer marketing aziendale un primo tipo di classificazione degli influencer è quello quantitativo, legato ai follower, da cui dipendono le performance. Ma non è l’unico: più utile risulta una valorizzazione qualitativa, di tipologia di profilo e di comportamento che gli influencer stessi tengono sui social. Si possono così distinguere i “classici” influencer, ovvero personaggi che hanno acquisito notorietà sui social, specializzati su un solo tema o vocali in diversi campi, che condividono alcuni aspetti della loro vita privata; le celebrity, personaggi che hanno una notorietà ottenuta da attività realizzate al di fuori dei social media, come la partecipazione a programmi televisivi; i creator, ovvero quegli influencer che creano contenuti mirati all’intrattenimento; gli expert, gli influencer fortemente specializzati in un determinato settore anche grazie a una professione esercitata al di fuori dei social; community and editorial, ossia pagine social di editori o di community che non s’identificano con un unico volto ma dietro cui lavora un team.
Piccoli influencer, in molti casi, possono generare interesse, interazioni e conversioni migliori in virtù della maggiore attinenza a un prodotto o un brand ai quali, per la natura stessa del loro successo, sono più facilmente associabili. Significa, ad esempio, che, nel caso di prodotti ecosostenibili, una campagna con un piccolo influencer (in termini di numeri) seguito da persone interessate ai temi ambientali può ottenere risultati migliori rispetto a una campagna portata avanti con una figura più “pesante”, dal punto di vista dei numeri, ma meno attinente per interessi e tematiche. E qui torniamo alla strategia e ai ragionamenti che, di volta in volta, caso per caso, è utile per le aziende e per gli influencer stessi seguire.
Con il passare del tempo le community raccolte intorno agli influencer sono diventate centri d’aggregazione per esperti e appassionati, dove gli utenti non solo ricercano e ricevono informazioni su servizi e prodotti, ma intrattengono un dialogo intorno a questi. Domande, richieste e opinioni possono generare dibattito e conversazioni con un alto tasso di considerazione da parte degli attori coinvolti. Basterebbe questo, insomma, per capirne le enormi potenzialità.