di Gabriele Lippi (wired.it, 13 agosto 2019)
Sul gradino più alto del podio con un ginocchio piegato. La foto di Race Imboden, fiorettista americano oro nella prova a squadre ai Giochi Panamericani di Lima, ha fatto il giro del mondo. The star spangled banner risuona nella hall che ospita le gare di scherma mentre lui assume la posizione resa celebre da Colin Kaepernick, l’ex quarterback dei San Francisco 49ers che dal marzo 2017 non ha più un contratto professionistico con la Nfl.L’obiettivo della protesta è lo stesso: Donald Trump, il presidente che piace sempre meno agli atleti. Imboden è bronzo olimpico a Rio 2016 e oro agli ultimi Mondiali di Budapest, sempre a squadre. Da un anno è allenato dall’ex ct azzurro ed ex fiorettista italiano campione olimpico a Seul 1988 Stefano Cerioni, e non è la prima volta che fa questo gesto. Era già capitato un anno fa, in Coppa del Mondo. Ma stavolta la vetrina era diversa e, secondo quanto riportato dal Guardian, c’era un accordo firmato col Comitato olimpico americano che chiedeva agli atleti di non lasciarsi andare a dichiarazioni e atti politici. Così Imboden rischia una sospensione, magari persino di perdere il biglietto per l’Olimpiade di Tokyo 2020. E non è l’unico.
Negli stessi giorni, sempre ai Giochi Panamericani, la martellista afroamericana Gwen Berry ha alzato il pugno sul podio durante le ultime note dell’inno nazionale, replicando la protesta di Tommie Smith e John Carlos a Messico 1968. Loro lo fecero per i diritti civili, a pochi mesi di distanza dall’assassinio di Martin Luther King, lei l’ha fatto per le stesse ragioni che hanno portato alla nascita del movimento Black Lives Matter. “Qualcuno deve parlare di queste cose che sono troppo scomode perché se ne parli” – ha spiegato Berry – “qualcuno deve alzarsi contro tutte le ingiustizie che stanno capitando in America e un presidente che non fa che peggiore la situazione”. Alzarsi o inginocchiarsi.
Anche Imboden ha spiegato il suo gesto alla Cnn: “Per me stare su un podio a sentire l’inno americano è sempre stato un momento di puro orgoglio” – ha dichiarato –. “Ma negli ultimi anni quell’orgoglio è stato colpito da alcune cose come il razzismo e i maltrattamenti verso gli immigrati, esattamente come il nostro presidente e tutto ciò che rappresenta”. A spingere Imboden a inginocchiarsi di nuovo, sfidando il veto del Comitato olimpico nazionale, sono state le sparatorie della settimana scorsa a El Paso e Dayton, la prima ormai identificata come un atto di suprematismo bianco. “Sono un atleta che vuole invocare un cambiamento, non ho una grande piattaforma su cui parlare” – ha spiegato Imboden, – “tiro di scherma e per molte persone credo di rappresentare il privilegio bianco, faccio uno sport che probabilmente è praticato prevalentemente dalle élite benestanti e pensavo fosse il momento che un volto diverso venisse fuori”.
Ed è questa la particolarità che differenzia il fiorettista americano dagli altri atleti taggati sul post Instagram con cui ha condiviso la sua protesta. John Carlos, Colin Kaepernick e LeBron James sono afroamericani, Megan Rapinoe omosessuale, tutti appartengono a una delle minoranze discriminate nell’America bianca. Imboden no, è parte di essa ma ha scelto di abbracciare la protesta andando incontro alle possibili conseguenze. Nelle foto lo si vede in ginocchio mentre i compagni di squadra Nick Itkin e Gerek Meinhardt restano in piedi, e il pensiero va a Peter Norman, l’atleta bianco australiano che compare in tutte le immagini di Smith e Carlos sul podio di Messico ’68. Norman salì sul podio indossando lo stemma dell’Olympic Project for Human Rights e ne pagò le spese una volta tornato in patria. Qualificatosi per i Giochi di Monaco di Baviera 1972 sia nei 100 sia nei 200 metri, ne venne escluso dal suo comitato olimpico. Ai Giochi di Sydney 2000 non fu coinvolto in alcun modo, dimenticato da tutto e da tutti, gettato nell’oblio assoluto.
Gli atleti che si espongono politicamente per una causa che ritengono giusta corrono forti rischi per la loro carriera anche oggi. Colin Kaepernick ha smesso di giocare in Nfl. Era un ottimo quarterback, ma all’improvviso nessuno gli ha più offerto un posto in squadra. La Nike, che l’ha scelto come testimonial per una sua campagna, ha sfidato in questo modo la lega professionistica, anche se il contratto di sponsorizzazione e fornitura di tutto il materiale tecnico è stato recentemente rinnovato. Megan Rapinoe, che ha dichiarato più volte che non sarebbe andata alla Casa Bianca dopo la vittoria del Mondiale di Calcio, è arrivata più volte allo scontro frontale con la propria Federazione, ma più per questioni sindacali che di natura politica. Muhammad Ali vide revocarsi la licenza per quattro anni dopo essersi rifiutato di combattere in Vietnam. Imboden e Berry rischiano l’esclusione dei Giochi per aver espresso il loro pensiero.
Secondo un’opinione fin troppo diffusa, un atleta non dovrebbe esporsi politicamente, dovrebbe limitarsi a correre, saltare, eseguire una parata e risposta. Questa posizione è la negazione della persona e allo stesso tempo ignora completamente la storia dello sport, che è sempre stato politica. Nei gesti individuali, di cui abbiamo già parlato, ma anche nelle dinamiche internazionali tra i Paesi. La distensione tra Usa e Cina è passata per una partita di tennis tavolo; la Guerra Fredda è entrata prepotentemente nella storia dei Giochi olimpici col doppio boicottaggio di Mosca 1980 e Los Angeles 1984; lo stesso Cio ha utilizzato lo sport come forma di virtuosa pressione politica per combattere l’apartheid in Sudafrica.
In un’intervista rilasciata qualche mese fa al sito Pianetascherma.com Imboden aveva riassunto così il suo punto di vista: “Penso che sport e politica vadano mano nella mano, abbiamo avuto molti atleti influenti in politica, soprattutto in America, penso ad esempio a Muhammad Ali o LeBron James, ma credo che sia importante avere dei valori e tenerli saldi. È importante parlare e farlo anche per chi non ha voce”. Decidere di sfruttare la propria visibilità per una causa pubblica è un diritto che a nessuno dovrebbe essere negato.