di Maurizio Stefanini (linkiesta.it, 25 aprile 2024)
Bella ciao è di frequente oggetto di polemica in Italia ogni 25 aprile, come peraltro ogni cosa che riguarda la storiografia resistenziale e la sua inserzione nell’attualità politica: il caso Scurati non ne è che l’ultimissimo esempio. Da una parte, ne è stato proposto per legge uno status ufficiale, come inno da insegnare a scuola. Dall’altra, è stata contestata come strumento d’indottrinamento politico “comunista”.
Politica a parte, una disputa filologica si è accesa quando nel 2006 ne è stata trovata un’incisione con una melodia per molti versi simile ma in Yiddish risalente al 1919. Nel 2021 lo storico Ruggero Giacomini ha pubblicato un saggio in cui, sulla base di testimonianze inedite, cerca di dimostrare che la versione partigiana ebbe origine nelle Marche. Nel 2022 la disputa sulla sua origine è finita in un documentario di Giulia Giapponesi. Tutto questo interesse, però, perché nel frattempo a livello mondiale era diventata un fenomeno pop, e ormai un simbolo d’italianità non meno di pasta, pizza o Nazionale azzurra: probabilmente più dell’Inno di Mameli, in un filone che comunque è quanto mai complesso.
Rilanciata in Spagna con La Casa de Papel; intonata dai giocatori del Barcellona dopo una vittoria in Copa del Rey; trasformata in inno ambientalista con un nuovo testo in Inglese; tradotta in Ucraino come parte della colonna sonora della resistenza all’invasione putiniana; ripresa dalla protesta delle donne iraniane; eseguita da Tom Waits e Marc Ribot; remixata dal DJ Steve Aoki; cantata dai migranti sbarcati dalla Open Arms e nelle manifestazioni sindacali; ovviamente ripresa contro questo governo; hit estiva in Germania e Francia; tradotta in una quantità di lingue. È stata definita «una canzone popolare antifascista italiana per l’era Trump» da Rolling Stone. «Una canzone rivoluzionaria degli anni Quaranta diventata un successo estivo» da Le Parisien.
Una canzone che «molto tempo dopo fu cantata per la prima volta – secondo studi storici – nel XIX secolo dai lavoratori delle risaie della Pianura Padana, nel Nord Italia», da El País. Cosa imprecisa. Se c’è una cosa che gli etnomusicologi italiani hanno appurato da tempo è proprio che la versione delle mondine di Bella ciao cantata da Giovanna Daffini non era l’origine del partigiano, ma al contrario una derivazione da esso. In effetti la storia fu un po’ corretta in un articolo successivo, che ipotizza una derivazione dalla musica dell’Est europeo, ma spiega che comunque il testo. «Riflette l’idealismo degli italiani che scesero in montagna nel 1943 per combattere i tedeschi». Anche se poi aggiunge: «Non era l’unica canzone dei guerriglieri, che cantavano anche Fischia il vento e altri brani bellicosi». Poi c’è il Guardian, che la classifica senza dubbio come «canzone comunista».
In realtà, Bella ciao è molto più cantata oggi che hai tempi dei partigiani. Non era certo l’inno della Resistenza, e gran parte della sua fama è dovuta proprio al fatto che non era una canzone comunista. Potremmo dire di più: Bella ciao è un esempio clamoroso di quel fenomeno che Eric Hobsbawm chiamava «l’invenzione della tradizione», e la prova di ciò si trova semplicemente leggendo Storia della Resistenza italiana di Roberto Battaglia. Autore di quella Storia dell’Italia partigiana da lui stesso definita nell’altro suo saggio Storia popolare della Resistenza come l’opera più importante di una seconda generazione di storiografia resistenziale culminata negli anni Settanta, Giorgio Bocca nella stessa sede ha parlato del libro di Battaglia come dell’«opera storica che meglio esprime pregi e difetti» di una prima generazione di resistenze storiografiche ascrivibili al periodo 1945-55.
Battaglia era stato nel Partito d’Azione, e nel suo libro autobiografico Un uomo, un partigiano aveva confessato che non gli piacevano i comunisti perché «non ridono mai». Poi però, con lo sfasciarsi del Pds, finì proprio per celebrare il matrimonio tra le eredità dei due principali partiti della Resistenza, cercando di sostenere che la formazione togliattiana fosse anche l’erede dei partigiani di Gl [Giustizia e Libertà – N.d.C.]. Al tempo stesso, usò un linguaggio scorrevole da intellettuale di origine liberal-progressista, sicuramente più leggibile di quello di altri autori cresciuti nella nomenklatura del Pci e nel gergo marxista. Ebbene, in questo libro una decina di pagine sono dedicate ai canti della Resistenza.
Quali sono i canti partigiani elencati da Battaglia? Innanzitutto La sighela: canzone dei partigiani comunisti romagnoli derivata da un canto di protesta contadina – citato anche nel film Novecento di Bernardo Bertolucci – che è presente anche nel Centro Italia, e con il testo legato a composizioni di epoca giacobina. Il canto di protesta originale ha parecchie cover: da citare quella dei Novalia. Non è stata però molto riproposta la versione partigiana riferita da Battaglia. Segue poi un gruppo di brani dei Gl piemontesi. Innanzitutto Pietà l’è morta, canzone scritta dal comandante partigiano Gl ed ex ufficiale degli Alpini in Russia Nuto Revelli: autore di libri come La guerra dei poveri e La strada del Davai e padre del politologo Marco Revelli. Riadattò un canto alpino già noto come Sul ponte di Bassano bandiera nera durante la Prima guerra mondiale e Sul ponte di Perati bandiera nera durante la Seconda guerra mondiale sul fronte greco-albanese. Di quest’ultimo esiste anche una cover dal sapore country di Massimo Bubola. Battaglia cita poi Là su quei monti fuma una grangia, sull’aria di un canto da osteria. Non ti ricordi il trentun di dicembre, riadattamento del canto alpino della Grande Guerra Monte Canino, qui pure in una cover di Massimo Bubola. Quand ch’a j eru a Paralup, pure sull’aria di una canzone alpina. La Badoglieide, pure composta da Nuto Revelli.
Poi viene Plui fuarz di prime, canzone in Friulano delle anticomuniste Brigate Osoppo. Malgrado i toni nazional-patriottici e addirittura religiosi, Battaglia ne scrive in termini entusiastici; ed effettivamente il tono quasi cinematografico con cui viene descritta la battaglia per la difesa della Zona Libera della Carnia ne fa forse il testo più bello di tutta la innodia partigiana italiana. Però non è stata praticamente mai incisa, e su YouTube risulta solo l’esecuzione di una corale che peraltro la mette in coda a un canto delle brigate Garibaldi Natisone, e in un’atmosfera di fazzoletti rossi forse non troppo in sintonia con una storia in cui partigiani osovani furono addirittura trucidati dai garibaldini nella famigerata strage di Porzûs. Tra le vittime lo zio e omonimo di Francesco De Gregori, comandante di quel reparto, e il fratello di Pier Paolo Pasolini [Guidalberto Pasolini, detto “Guido” – N.d.C.]. Proprio alla memoria dello zio, De Gregori dedicò una cover della canzone alpina in friulano Stelutis alpinis.
Battaglia continua poi con Vedemo spetemo, canzone dei partigiani padovani sullo stesso canto da osteria di Là su quei monti fuma una grangia. Infine due canzoni delle Brigate Garibaldi liguri, che come tutte le Brigate Garibaldi erano organizzate dal Pci ma in quella regione avevano una composizione politica più pluralista. Tant’è che il loro comandante più popolare fu il cattolico Aldo Gastaldi “Bisagno”, su cui Gianpaolo Pansa rilanciò il dubbio che la sua morte misteriosa poco dopo la Liberazione sia stata una purga stalinista. Una delle due canzoni è comunque in Ligure, e originale: Sotta a chi tucca. L’altra in Italiano, sull’aria di una famosa canzone russa, la già citata Fischia il vento.
Fischia il vento era in effetti diventata famosa anche fuori dalla Liguria, e Beppe Fenoglio ne Il partigiano Johnny descrive la scena di un partigiano russo che sta con i garibaldini e che issato «su una specie di podio» si mette a intonare «Fischia il vento, infuria la bufera nella versione russa, con una splendida voce di basso». Johnny, alter ego di Fenoglio, sta con i partigiani Autonomi anticomunisti: gli «azzurri» del comandante Mauri. Ed è lui a spiegare a un amico: «Essi hanno una canzone, e basta. Noi ne abbiamo troppe e nessuna. Quella loro canzone è tremenda. È una vera e propria arma contro i fascisti che noi, dobbiamo ammettere, non abbiamo nella nostra armeria. Fa impazzire i fascisti, mi dicono, a solo sentirla. Se la cantasse un neonato l’ammazzerebbero col cannone».
Quali erano le canzoni che cantavano gli Autonomi con cui stava Fenoglio? Be’, l’autore di queste note ha fatto proprio la sua tesi di laurea sulle Formazioni Mauri. Non solo: uno dei dodici capitoli era dedicato alle canzoni, e un correlatore gli fece proprio una domanda su quelle. Era Beppe Anacar, partigiano a quindici anni e poi segretario dell’Associazione Volontari della Libertà del Piemonte, che, a parte mettermi a disposizione archivi e testimonianze, aveva tirato fuori un quaderno con i testi delle canzoni, che poi mi aveva cantato. Titoli: Azzurri, Inno a Mauri, Sui Monti delle Langhe, Strofette Partigiane, Inno del Pompaggio, Sul Ponte del Tanaro, Avanti siam ribelli, Passano i partigiani, Largo ai partigiani, Canto dei primi ribelli.
Quest’ultimo sarebbe poi Fischia il vento in una versione non comunista, dove la «rossa sua bandiera» diventa «l’italica bandiera» e «la rossa primavera» diventa «la nostra primavera». Ma anche qui, di Bella ciao non c’è la minima traccia. Sta, invece, in tutte le raccolte di canzoni partigiane pubblicate dagli anni Sessanta in poi: sia dischi, sia libri. Del 1985, per i quarant’anni dalla Liberazione, è in particolare nei Canti della Resistenza italiana a cura di Antonio Virgilio Savona e Michele Lucio Straniero, per la Bur. Riporta duecentotrentasei testi e venticinque melodie. La verità è che un Inno della Resistenza non esiste.
La guerriglia antitedesca e antifascista tra 1943 e 1945 fu un fenomeno estremamente frammentato sul territorio, com’è d’altronde caratteristica di ogni guerriglia. Dunque, ogni raggruppamento ideologico-territoriale di bande, brigate e divisioni cantava le sue canzoni, che al massimo filtravano nelle zone immediatamente adiacenti. Fischia il vento era nato in Liguria, ma divenne essenzialmente un inno dei garibaldini piemontesi. Tra i garibaldini liguri si affermarono invece Dalle belle città, originale; e Il bersagliere ha cento penne, tratto da una canzone alpina.
I Gl piemontesi avevano la già citata Pietà l’è morta. Azzurri, delle Formazioni Mauri, adattata da un canto alpino della Grande Guerra, è stata sia registrata da reduci sia riproposta, ma censurata della prima strofa apertamente monarchica: «Sul cappello portiamo l’emblema / dei reali di Casa Savoia / noi lo portiamo con fede e con gioia / viva l’Italia e i suoi partigian». Una traccia ne resta però in quel «se la repubblica ti lascia il passaggio». Derivato da una canzone dei bersaglieri è invece il Non c’è tenente, né capitano, degli Autonomi della Val d’Ossola: le Formazioni Di Dio (non perché fossero cattolici, ma perché comandati dai fratelli Alfredo e Antonio Di Dio). Ma da una melodia del repertorio dei bersaglieri viene anche La Brigata Garibaldi, inno dei garibaldini emiliani (anche in una versione dal sapore country della Gang). Mentre in gran parte da canzoni alpine e di montagna derivava il repertorio delle Fiamme Verdi: formazione di cattolici e liberali di Lombardia ed Emilia. Ci sono molti brani nei canzonieri a stampa, ma quasi nulla di inciso. Un’eccezione è Noi della Val Camonica.
All’innodia anarchica di inizio Novecento risale un Inno della rivolta, di recente rifatto da Francesco Guccini anche perché costituisce un’evidente fonte d’ispirazione per La locomotiva. Da esso derivano, ad esempio, canti di partigiani comunisti romani, ma anche l’inno dei Gl emiliani, che erano duramente anticomunisti, e una delle canzoni “badogliane” dei partigiani di Mauri in Piemonte, che appunto dicevano “repubblicano” invece che “repubblichino”. «Se canta la mitraglia dei tedeschi / se fischia il mitra del repubblicano / chi non si arrende mai è il partigiano / risponde con le bombe a mano». Insomma, il passaggio di canzoni militari a sinistra o anarchiche a destra poteva essere trasversale. Attorno a Sarzana c’erano, comunque, partigiani anarchici in gran parte carraresi riuniti in un Battaglione Lucetti con un inno originale.
«Nei venti mesi della guerra partigiana non ho mai sentito cantare Bella ciao, è stata un’invenzione del Festival di Spoleto», scrisse Giorgio Bocca. Si riferiva allo spettacolo intitolato Bella ciao, presentato nell’estate del 1964 a Spoleto e ideato come un collage di canti popolari. Lo spettacolo ebbe grande successo e contribuì quindi anche al successo dell’inno, che comunque aveva iniziato a circolare negli anni Cinquanta. Sulla tesi, abbiamo ricordato, c’è dibattito. Peraltro quello spettacolo fece scandalo per Gorizia: canzone della Grande Guerra, accusata di vilipendio dell’esercito. Paradossalmente, però, l’anno dopo, per il ventennale della liberazione festeggiato da un governo di centro-sinistra che si preparava a creare l’“arco costituzionale” col Pci, si pensò proprio alla canzone dello spettacolo-scandalo, quando si sentì il bisogno di “inventare” un inno che potesse celebrare in maniera discreta i “Valori della Resistenza” senza offendere nessuno: né con la lotta di classe, e neanche con le nostalgie sabaude o con le polemiche sulle Foibe. Lo afferma nero su bianco un’opera dalle credenziali “progressiste” indiscutibili: Avanti Popolo.
Due secoli di canti popolari e di protesta civile, a cura dell’Istituto Ernesto De Martino (Hobby & Work, 1998). Citiamo da pagina 144: «Questo canto partigiano dell’Italia Centrale (Lazio, Abruzzo, Emilia) è la trasformazione del canto epico-lirico Fiore di tomba, di cui si conoscono versioni già sulla medesima aria. Poco diffuso, e solo in alcune regioni, durante la guerra partigiana, è diventato attorno al 1965 – in una vera “invenzione della tradizione” – il canto per eccellenza della Resistenza italiana, essendo accettabile da tutti per il suo contenuto esclusivamente patriottico e l’assenza di accenni a un rinnovamento della società». In effetti se il testo riprende il tema dell’antica ballata Fiore di tomba, la musica e il ritornello sono presenti in una filastrocca infantile di origine forse trentina. E l’arrangiamento klezmer? In realtà l’aria dei bambini trentini sembra anche piuttosto antica, e non mancano esempi di contaminazione tra folklore musicale italiano, Est europeo ed ebraico. Lo stesso inno nazionale israeliano Hatikvá corrisponde a una melodia usata anche da Bedřich Smetana nella Moldava: si tratta originariamente di una danza dell’Italia rinascimentale, Il ballo di Mantova.
Anche Roberto Leydi si sofferma su Bella ciao, nel suo classico I canti popolari italiani: è l’ultima delle centoventi canzoni raccolte in questo libro del 1973. La stessa raccolta pubblica la Bella ciao infantile nel numero 6 e nel numero 75 un esempio di Fiore di tomba, per cui dà per scontata la derivazione dell’uno per la musica e dell’altro per il testo. Ma sulla nascita del canto partigiano, aggiunge, «si sa pochissimo. Le ricerche a noi note non hanno chiarito né dove né quando sia nato. Il dottor Grosso, di Perugia, afferma di averla imparata durante l’avanzata su Bologna, mentre militava con i reparti regolari aggiunti agli Alleati. Altre testimonianze indicano la zona di Montefiorino, nell’Appennino emiliano, come luogo dove era presente il canto durante la Resistenza». Poiché a Montefiorino c’era la Brigata Italia di Emanuele Gorrieri, risulterebbe addirittura un’origine democristiana.
Più di recente, appunto, Giacomini parla di origine nel maceratese. Lì lo avrebbero imparato i partigiani della Brigata Maiella, che provenivano dall’Abruzzo e che, a loro volta, si erano uniti agli Alleati come truppe di prima linea. Altri storici dicono che la documentazione non è decisiva, ma l’ipotesi coinciderebbe con quanto afferma Leydi. Comunque è singolare questa traiettoria di una canzone che nasce da partigiani non comunisti che combattono con gli Alleati, viene poi scelta come simbolo partigiano apolitico per decomunistizzare la Resistenza, ne viene però invece comunistizzata, è ancor più identificata a sinistra quando negli anni Novanta comincia a essere utilizzata contro i governi Berlusconi, e infine diventa una hit globale.
Può essere anche interessante, comunque, osservare che il percorso di invenzione della tradizione iniziato con Bella ciao non si è in effetti mai fermato. Ad esempio, nel 1995, proprio per i cinquant’anni dalla Liberazione in clima berlusconiano, con il sostegno del Comune di Correggio e della Provincia di Reggio Emilia uscì un album che s’intitolava Materiale Resistente e in cui, però, su diciotto canzoni solo quattro erano state effettivamente canzoni partigiane: Siamo i ribelli della montagna (cioè Dalle belle città), Con la guerriglia, una famosa Bella ciao dei Modena City Ramblers e una Fischia il vento degli Skiantos. Ci sono poi una canzone partigiana francese, una dei deportati nei lager, una anarchica e undici, appunto, di composizione successiva alla Resistenza.
Anche l’ideale hit parade resistenziale che Vasco Brondi propone per questo 25 aprile ha undici brani, di cui due partigiani: il Siamo i ribelli della montagna di Materiale Resistente, e la Bella ciao di Tom Waits e Marc Ribot. Cita poi Incubo numero zero di Claudio Lolli, Linea Gotica dei Csi, Il cuoco di Salò di Francesco De Gregori, Militanz dei Cccp, Tiepido aprile di Franco Battiato, Hanno crocefisso Giovanni dei Marlene Kuntz (anch’esso da Materiale Resistente), Suona Rosamunda di Vinicio Capossela (tratto da Primo Levi), Compagna Teresa de Il Teatro degli Orrori, Qualcuno era comunista di Giorgio Gaber.
Forse però meriterebbero allora di essere ricordate altre tre canzoni che pure furono scritte dopo la Resistenza, ma pure hanno un certo spessore. Innanzitutto Oltre il ponte, scritta nel 1959 da Italo Calvino su musica di Sergio Liberovici, di cui esiste una famosa cover dei Modena City Ramblers che però hanno modificato la melodia in stile irlandese. Poi Io ero Sandokan, scritta per il film di Ettore Scola del 1974 C’eravamo tanto amati, musica di Armando Trovajoli, testo di Paola Scola, figlia allora adolescente del regista. E in Materiale Resistente c’è una versione di Gang di Eurialo e Niso, canzone con cui Massimo Bubola ha omaggiato il padre, professore appassionato di Virgilio e già comandante di una formazione Gl, trasponendo, appunto, un famoso episodio dell’Eneide all’epoca della guerra partigiana.