di Gabriele Isman (huffingtonpost.it, 8 novembre 2024)
La cavalleria non è bastata, o forse non è mai arrivata. Nonostante gli endorsement di Bruce Springsteen, Billie Eilish, Taylor Swift, Beyoncé e Lady Gaga, Kamala Harris ha perso e hanno vinto gli altri, Donald Trump e Elon Musk che sembra vicepresidente più di J.D. Vance. Una volta la musica poteva cambiare il mondo – Imagine di John Lennon è ancora una speranza di pace e Blowing in the wind è stato l’inno di almeno un paio di generazioni, e che stavolta Bob Dylan non si sia fatto sentire forse era già un segnale – ma adesso non bisogna più scegliere.
Perché nei nostri telefonini ci sono tutte le canzoni del mondo e hanno tutte lo stesso peso, la stessa presentazione, la stessa visibilità dei testi, dal tormentone estivo a Smells like teen spirit dei Nirvana, che diedero voce alla rabbia giovanile partendo da Seattle. La sconfitta di Kamala Harris porta con sé l’insostenibile leggerezza della musica attuale: l’artista deve soltanto esibirsi, non è più rilevante il suo pensiero, una canzone mobilita sui temi ma non sposta voti, e un post non sempre è politico.
Quel “game, set, match” di Musk sparato naturalmente su X ai primi segnali della vittoria di Trump vale più del lungo endorsement su Instagram e Facebook di Taylor Swift o della God bless America suonata da Lady Gaga al comizio finale di Harris. La sconfitta per il mondo democratico è cocente e non è nemmeno consolatorio pensare che non ci sarà un terzo mandato per Donald Trump. Potrebbe persino pensare di cambiare anche quell’emendamento alla Costituzione.
Nel 1993 Bob Dylan scrisse un album dal titolo che suona attualissimo, World gone wrong. Il mondo finito male era per sola armonica, chitarra e voce, e conteneva brani della tradizione americana. Sting, cresciuto nella realtà popolare di Wallsend, nella periferia portuale di Newcastle, scriveva per i Police: “quando il mondo va in pezzi, fai del tuo meglio con ciò che resta”. Ma stavolta forse è rimasto davvero poco su cui ricostruire.