di Ida Dominijanni (internazionale.it, 13 gennaio 2021)
Fra le immagini provenienti da Washington ne circola una perfino più sintomatica di quelle dei manifestanti che si arrampicano come formiche sui muri di Capitol Hill e devastano indisturbati il tempio della democrazia americana, o di quelle dello sciamano tatuato con le corna che si accomoda trionfante sullo scranno di Mike Pence, o di quelle dei legittimi rappresentanti del popolo evacuati sotto la minaccia dei Proud Boys armati. È un filmato fatto con il telefono e diffuso dal figlio dello stesso Trump, che ritrae il presidente tuttora in carica con la moglie a fianco davanti a uno schermo televisivo, mentre si gode la diretta della manifestazione che sta per aizzare contro il Parlamento, il tutto con Gloria – un nome un programma – a tutto volume per tenergli su il morale.
Il filmato, mi si perdoni il paragone sacrilego, mi ha fatto venire in mente l’analisi di Las meninas di Velázquez fatta da Foucault nell’indimenticabile incipit di Le parole e le cose: come quel quadro, dice tutto della situazione epistemica di un’epoca, la nostra. C’è un fatto clamoroso, trasmesso in diretta tv, che tutto il mondo sta guardando con sgomento. E c’è il regista di quel fatto che dopo averlo organizzato lo guarda a sua volta su uno schermo e guarda noi che lo guardiamo, ma senza sgomento alcuno, anzi: ne gode. Che sta facendo Trump? Che farà nei prossimi giorni? Che farà fra quattro anni?, si chiede tutto il mondo, attribuendogli una razionalità politica che non gli appartiene. Risposta semplice: Trump gode; contempla la sua opera distruttiva e gode. E che farà in futuro? Risposta altrettanto semplice: continuerà a fare quello che lo farà godere. Facendosi beffe di quella razionalità politica in base alla quale lo si continua a giudicare.
Oltre ogni limite
La categoria psicoanalitica del godimento è entrata da tempo a far parte dell’analisi politica più sensibile alle trasformazioni della contemporaneità, e attenzione, non ha niente a che fare con un sano piacere di vivere. Ha a che fare piuttosto con un eccesso di piacere mortifero che si attiva nell’oltrepassamento del limite, e in particolare del limite della legge. È di questo che godono – se ne parlò in Italia ai tempi di Berlusconi – i leader autoreferenziali e narcisisti di oggi: del collocarsi oltre la legge. Perciò il richiamo alla legalità non ha alcuna efficacia su di loro: la legge non li contiene e non li limita, perché ciò di cui godono, e di cui fanno godere il loro popolo, è precisamente trasgredirla, o prescinderne. E il loro popolo si identifica con loro non malgrado, ma in quanto la trasgrediscono o ne prescindono, dimostrando che se ne può fare a meno.
È uno degli ingredienti basilari della relazione populista tra capo e popolo, che insidia alla radice l’edificio della democrazia costituzionale, tutta basata viceversa sull’autorità impersonale della legge; ma destabilizza anche l’equazione tradizionale fra la destra e lo slogan “Law and Order”, che infatti i politici alla Trump usano solo contro gli altri ma non applicano mai a sé stessi, e che infatti Trump ha tirato fuori, quando infine si è risolto a invitare i suoi supporter a tornare a casa “in pace, perché noi siamo il partito della legge e dell’ordine”, in palese contraddizione con l’incitamento all’illegalità con cui li aveva arringati poche ore prima.
La messa in scena della realtà
Un secondo ingrediente basilare del populismo è quello della politica come performance. La performatività è una dimensione propria dell’azione politica non da oggi, come dimostra la fortuna della metafora teatrale nel lessico politico della modernità. Ma nel teatro (politico) moderno c’erano un proscenio, un retroscena e un fuori-scena; c’era un essere e un apparire, un detto e un non detto, un pensiero e un retropensiero; c’era una rappresentazione che interpretava la realtà senza confondersi con essa, in perfetta simmetria con la rappresentanza che interpreta le istanze dei rappresentati senza identificarsi con loro. Oggi invece il set della performance politica non è più quello teatrale, bensì quello del reality show, da dove non a caso Trump – e prima di lui Berlusconi – proviene. E nel reality show non c’è l’essere e l’apparire ma l’apparire che coincide con l’essere, non c’è retroscena né fuori-scena ma tutto va in scena, non c’è non detto né retropensiero perché tutto si può dire e si dice. E non c’è rappresentazione della realtà, perché la rappresentazione è la realtà; come non c’è rappresentanza in assenza dei rappresentati, bensì presenza ossessiva del leader e identificazione fra il leader e i suoi seguaci. Per questo è vano domandarsi, di fronte alla diretta da Washington, se si sia trattato “solo” di una sceneggiata o invece di un golpe “vero”, tentato e fallito: perché se anche si trattasse “solo” di una messinscena, sarebbe una messinscena immediatamente produttiva di realtà. La lesione della democrazia americana che ne deriva non è meno effettiva e reale di quella che sarebbe derivata da un tentativo di golpe “vero”: la messa in scena serve precisamente a rendere plausibile, pensabile e realizzabile ciò che prima era inconcepibile, per l’appunto performandolo. Se è andato in onda è accaduto, o comunque può accadere: al cospetto del mondo, e dei molti nemici che non senza ragioni ha nel mondo, la democrazia americana è diventata vulnerabile, e da questo punto di vista il golpe, “reale” o “sceneggiato” che fosse, è perfettamente riuscito.
Siamo arrivati a un terzo, e connesso, ingrediente basilare della politica populista, che è lo sfondamento del confine fra vero e falso: dove tutto è dicibile, vero o falso che sia, tutto diventa verosimile, anche la menzogna più eclatante, e tutto diventa oggetto di incredulità o creduloneria. Pure qui non si tratta di una novità assoluta: della menzogna la politica ha sempre fatto uso, e il totalitarismo – Arendt insegna – ne ha fatto un uso cruciale per i propri fini. Ma pure qui c’è un salto di scala, dovuto alle trasformazioni della sfera pubblica nelle democrazie contemporanee, dalla crisi delle autorità simboliche al dilagare del mercato delle opinioni alla diffusione dei social media, tutti fattori convergenti nell’innescare quella “crisi epistemologica” della democrazia americana che Obama denuncia nel suo ultimo libro e che ha trovato in Trump il suo carburante più potente, grazie anche – ma non solo – al suo uso intensivo dei social come strumento di “disinformazione partecipata”. Fino alla gestione negazionista della pandemia e alla grande menzogna del furto delle elezioni, alla quale nonostante tutto credono tuttora o fingono di credere i parlamentari repubblicani rimasti fedeli a Trump oltre che la stragrande maggioranza del suo elettorato.
L’ombra della democrazia
Se si considerano questi tre ingredienti della politica populista in generale e di quella di Trump in particolare, l’assalto a Capitol Hill risulta tutt’altro che imprevedibile. E infatti era stato ampiamente previsto, già durante la campagna elettorale, il “worst scenario” di un presidente uscente che se sconfitto nelle urne avrebbe applicato al risultato la sua strategia di falsificazione della realtà, trasformando così la crisi epistemologica della democrazia americana in crisi istituzionale. Uno scenario scartato con sufficienza, qui in Italia, da quanti prima hanno cercato di normalizzare la gara elettorale come una questione di ordinaria alternanza, poi hanno cercato di normalizzarne l’esito brindando troppo frettolosamente alla tenuta delle istituzioni americane.
C’è voluta la “sceneggiata” di cui sopra perché l’allarme suonasse davvero; e si spera che non rientri non appena la legalità costituzionale americana avrà trovato un modo, non è ancora chiaro quale, per ricucire la ferita. Non c’è infatti nessuna normalizzazione all’orizzonte, perché se pure Trump dovesse sparire dalla scena politica non spariranno i processi di cui egli è stato sintomo e causa. La partita che si sta giocando non è tra una parentesi anomala e il ritorno alla normalità, perché il populismo non è un’anomalia rispetto al modello democratico “corretto”. È piuttosto, come ha scritto una volta per tutte Margaret Canovan, l’ombra della democrazia, una eventualità sempre latente pronta ad attivarsi impugnando il democraticissimo principio della sovranità popolare ogni qualvolta la democrazia rappresentativa attraversa fasi di crisi radicale. Come tutte le ombre, si allunga al tramonto. E niente oggi ci garantisce che la crisi delle democrazie occidentali non si stia trasformando in un lungo tramonto.
La campana di Capitol Hill suona dunque anche per noi europei. E quanto all’Italia non annuncia solo un pericolo a venire, rappresentato dai Salvini e dalle Meloni di turno. Evoca piuttosto un passato recente e già rimosso, di cui portiamo tuttora i segni. Lo sa bene il famoso tassista di New York che non bisognerebbe mai citare in un pezzo, quello che ogni volta che atterri lì ti chiede da dove arrivi, e che se ai tempi di Berlusconi ti salutava con un beffardo “Italy! bunga bunga!”, dopo l’elezione di Trump si limitava a un più mesto e complice “you know the matter”, voi ci siete già passati. Ci siamo già passati infatti, con uno che l’assalto al parlamento non l’ha mai organizzato ma l’attacco alla Costituzione l’ha costantemente predicato e praticato, e quanto a perversione narcisistica, politica-reality e annebbiamento del confine tra vero e falso è stato un indiscutibile precursore. Né possiamo scandalizzarci più di tanto di fronte allo sciamano con le corna, abitante di un’America MAGA (Make America Great Again) immaginaria e perduta, non tanto diverso dai celebratori dei riti dell’ampolla in quel della Padania. E nemmeno di fronte agli invasori del Parlamento, che dalle nostre parti otto anni fa qualcuno voleva aprire come una scatoletta di tonno. Il virus populista circola da molto tempo, e noi che ci siamo già passati, sperimentandone per giunta variegate versioni, alla normalità democratica – ammesso che esista – non siamo mai più tornati.
L’anticorpo della Georgia
Pensiamo piuttosto agli anticorpi che possiamo e dobbiamo attivare. È tornata in auge in questi giorni la tesi, già molto diffusa a sinistra dopo l’elezione di Trump, di un rapporto di causa-effetto tra aumento delle disuguaglianze sociali e avanzata populista. Tesi fondata – anche se largamente contraddetta dalle analisi della composizione dell’elettorato trumpiano – ma parziale. Il populismo non è solo l’effetto di una crisi sociale. È un fenomeno politico, che ha a che fare con la crisi della politica: delle forme, del linguaggio, dell’immaginario e del credito della democrazia. E richiede perciò invenzioni politiche, non solo risposte economiche, all’altezza della complessità di questa crisi.
Nella loro enormità, i fatti di Washington hanno parzialmente oscurato la notizia dell’elezione in Georgia del predicatore nero Raphael Warnock, primo senatore afroamericano nella storia di uno Stato marchiato dal segregazionismo, e di Jon Ossoff, documentarista ebreo diventato il più giovane esponente del Senato americano. È il segno dell’“altra America”, quella delle minoranze e delle lotte per i diritti, e del conflitto che oggi la contrappone all’America bianca e suprematista dei Proud Boys trumpiani, che a Pennsylvania Avenue sventolavano la bandiera dei confederati. Ma è anche il risultato di un esperimento e di un investimento politico: a strappare quei due seggi ai repubblicani è stata l’infrastruttura politica e organizzativa costruita da Stacey Abrams e altre attiviste, che ha saputo riportare alla passione politica chi nella politica non credeva più e ha saputo unire in nuove coalizioni chi nella società si sentiva marginale, perdente o intrappolato in un ghetto identitario. È solo nella ricostruzione di un popolo dal basso che c’è l’antidoto alla mobilitazione populista dall’alto.