di Guia Soncini (linkiesta.it, 21 dicembre 2023)
A raccontarlo oggi non sembra neanche vero, ma una volta in questo derelitto Paese a scrivere di tv erano i più bravi. Erano gli anni in cui il varietà del sabato sera era una cosa che guardavamo in decine di milioni, era quando la cultura popolare era un segmento condiviso: guardavamo tutti le stesse cose, non i pezzettini di realtà che selezionava l’algoritmo, e quindi ci capivamo quando facevamo conversazione.
Nell’autunno del 1987, Fantastico – il varietà del sabato sera che tradizionalmente finiva il 6 gennaio, pure se il 6 gennaio non era sabato, perché l’ultima puntata coincideva con l’estrazione del biglietto vincitore della Lotteria Italia: oggi la Rai verrebbe accusata di fomentare la ludopatia – era condotto da Adriano Celentano. Celentano era al massimo del suo vigore – avrebbe compiuto cinquant’anni il giorno dell’ultima puntata – ed era quello di «La caccia è contro l’amore», frase che scrisse su una lavagna per invitare l’elettorato a scriverla sulla scheda referendaria, e per questo invito fu processato e assolto (ma i più ricordano solo che dimentico l’accento su «è»). Celentano era, soprattutto, quello delle pause. Faceva pause lunghissime, faceva della massima antitelevisività – il silenzio – momenti grandemente televisivi. A un certo punto, era ottobre, invitò a un minuto di raccoglimento, sempre per qualche istanza ecologista (un giorno qualcuno dovrà scrivere una storia della deriva ecologista italiana, da Celentano a Ultima Generazione passando per Beppe Grillo).
Poiché erano appunto anni in cui la tv la raccontava gente che avresti letto pure se avesse recensito l’elenco del telefono, di questo minuto di silenzio scrisse Beniamino Placido. Così. «Mi sono ricordato, durante quel minuto, che al centro di questo Fantastico di Celentano c’è un detersivo, con il suo bravo fustino. Non ne faccio il nome. È un detersivo come gli altri. E come gli altri, inquina. Inquina oggi meno di ieri, perché i produttori di detersivi hanno già fatto qualcosa. Inquina oggi più di domani, perché i produttori di detersivi faranno ancora di più (stimolati dalle opportune leggi) per ridurre il tasso inquinante dei loro peraltro indispensabili prodotti. Però inquina ancora. Su questo non c’è dubbio».
Il fustino era lo sponsor ma – spero foste già consapevoli di vivere in un secolo che è copia di mille riassunti, non vorrei mai dover essere io a darvi certe delusioni – era anche la buona causa della stagione, il veicolo della questione benefica, il pandoro degli anni Ottanta. «Si pubblicizza così la bontà? Così impudicamente?»: come tutte le cose importanti, la domanda sta tra parentesi, in un altro elzeviro di Placido, sempre nell’ottobre del 1987. In cui si questiona non dell’etica ma dell’estetica della beneficenza dentro i varietà, quei varietà che erano la versione alfabetizzata di quel che sono oggi i social.
«Il piccolo villaggio Kiongwani, nel cuore del Kenya, da costruire, o ricostruire, con l’aiuto dei telespettatori, che Celentano invita a mandare un “mattone”: mille lire. E dove si trova il bollettino per il versamento? Si trova nel fustino di Dash, spiega Celentano. Di Dash, lo ripete due volte. Perché siamo di fronte ad una iniziativa umanitario-pubblicitaria: “Missione bontà”. Alla quale partecipa anche lo stilista Missoni, che ha disegnato una nuova linea di prodotti: “Missoni for Africa”. Quindi si tratta di una “Missione Missoni”».
Missoni for Africa è chiaramente un rimando a Usa for Africa, il gruppo di cantanti famosissimi americani, da Bob Dylan a Cyndi Lauper, da Springsteen a Michael Jackson, che due anni prima si erano messi insieme per cantare We are the world, canzone benefica per i bambini africani, che allora erano il ricatto emotivo principale: nessun figlio usava le parole «patriarcato» o «genocidio», ma tutti i genitori dicevano «finisci le verdure, i bambini in Africa muoiono di fame». Usa for Africa era a sua volta una copia, i primi erano stati gli inglesi: Bob Geldof aveva messo su Band Aid, a Natale del 1984 erano usciti con Do they know it’s Christmas?, e il legame tra beneficenza e celebrità era nato per non morire mai più.
Certo, c’era una differenza, essendo quello il secolo del talento: Celentano e Bob Geldof, Michael Jackson e George Michael, tutti loro avevano un mestiere, delle capacità, una carriera che prescindeva dalle opere di bene. Non dovevano usarle per farci dimenticare che la loro celebrità e la loro ricchezza poggiavano sul nulla, non so fare niente ma guardami come sfamo questo bambino rachitico. Quando vogliono strabiliare, i forestieri ripescano il video di Celentano che a Milleluci canta Prisencolinensinainciusol, mica quello di qualche bella ragazza di questo secolo che c’insegna a metterci il blush. Un conto è inventarsi il balletto di Billie Jean, un altro saper accendere la telecamera del cellulare. Chiunque vi dica che la seconda dote vale quanto la prima vi sta prendendo per il culo, o sta disperatamente cercando di sembrare al passo coi tempi.
Nei mesi di quel Fantastico ci furono parecchie polemiche: quanti soldi prendeva Celentano dalla Procter&Gamble, la multinazionale che produce quei fustini di detersivo? Tre miliardi andavano alla Rai per la sponsorizzazione benefica, e venne scritto che Celentano ne prendesse dallo sponsor addirittura il doppio (non di solo mattone benefico s’incaricava, ma anche d’una telepromozione di caffè, legata a un gioco durante la trasmissione, caffè sempre prodotto da Procter&Gamble, caffè oltretutto neppure destinato a dare un tetto a qualche orfano).
L’anno prima, spiegavano le cronache, Pippo Baudo aveva un contratto a percentuale sulle sponsorizzazioni grazie a lui ottenute dalla trasmissione. Coi mesi le leggende metropolitane si ridimensionarono, e le cronache riportavano un più modesto miliardo e mezzo (in aggiunta ai tre che Celentano già prendeva dalla Rai: erano anni in cui con la tv si facevano i soldi, mica come ora che con una stagione di programma un conduttore incassa una frazione di quel che Chiara Ferragni prende per tre storie Instagram in cui dire quanto è ghiotta di sofficini).
Erano, chi c’era se ne ricorderà, gli anni di «Non si interrompe un’emozione», quelli in cui Fellini considerava le interruzioni pubblicitarie il male, un demonio che frammentava l’attenzione dello spettatore e lo riduceva inabile a restare concentrato sull’arte (ogni volta che fermo un film ogni tre minuti per guardare qualche notifica sul telefono, penso che, non fosse già defunto, Fellini morirebbe di crepacuore osservando questo tempo di concentrazione discontinua). Polemiche contro la pubblicità, ma anche polemiche dei pubblicitari. Celentano, in pieno periodo ecologista, a un certo punto diede ragione a Placido: disse che i detersivi uccidono. In un programma che aveva per sponsor, appunto, il fustino. Ricopio un’intervista dell’allora presidente dei pubblicitari italiani: «In quel momento confesso di aver avuto un brivido. Non per la pubblicità in generale, ma per i detersivi in particolare. D’altra parte se la Procter non ha protestato vuol dire che in base ai suoi rilevamenti di mercato non ne ha ricevuto danni».
Erano gli anni in cui Michele Serra faceva dire a Grillo che si poteva parlar male di Andreotti ma non di Coccolino, gli anni in cui Gaber diceva che il nostro nuovo dio era il consumismo. Eppure, a leggere di aziende che non fanno un plissé se il tizio cui danno miliardi di lire parla male del loro prodotto, sembra fossero anni molto più laici per il commercio dell’anima. Sarà che non avevamo i cellulari per minacciare il boicottaggio. Boicottaggio che poi – visto che le scelte d’acquisto dipendono dagli sconti e dalle abitudini, mica dalle ideologie – si risolve nel togliere il follow alla pagina del Dash. In che secolo militante ci è toccato invecchiare. In che secolo militante, ma soprattutto impudicamente esibizionista rispetto alla bontà.