di Riccardo Maggiolo (huffingtonpost.it, 21 dicembre 2024)
Ho due figli: una di nove anni e l’altro di sei. Con l’avvicinarsi del Natale, come immagino accada a quasi ogni genitore con bambini di quest’età, sono tornate le domande su Babbo Natale. La grande ha chiesto se esiste ma si dice oramai convinta che siamo noi genitori a mettere i regali sotto l’albero, mentre il più piccolo conferma di crederci – sospetto più che altro perché teme che non farlo comporti non ricevere regali.
Entrambi però sembrano avere un atteggiamento abbastanza distaccato alla questione, tanto che abbiamo dovuto ricordargli più volte di scrivere la lettera e si sono poi dimenticati di spedirla. Tutto questo non ha potuto che farmi tracciare un paragone su come vivevo io – e, credo, la mia generazione – il periodo natalizio. Mi pare di ricordare chiaramente l’attesa e le aspettative crescenti: non vedevo l’ora di scrivere la “letterina” e passavo molto tempo a domandarmi cosa avrei trovato sotto l’albero. Ora fatico a trovare questi pensieri e queste emozioni nei miei figli, ai quali credo il Natale appaia sì come un evento piacevole e attraente, ma anche piuttosto ordinario. La “magia del Natale”, che tanto ha incantato i bambini delle generazioni precedenti, per loro sembra quasi non esistere.
Si potrebbe dire che la differenza sta nel fatto che una volta ricevere un giocattolo in regalo, mangiare abitualmente dolci, vedere i parenti lontani fossero cose più rare o comunque meno accessibili di oggi. E forse si avrebbe in parte ragione. Ma penso che ci sia anche un aspetto più profondo, dovuto al fatto che oggi “credere” in qualcosa, lasciarsi trascinare dall’entusiasmo o dall’atmosfera, sia diventata una cosa socialmente meno accettabile; quasi una manifestazione d’ingenuità.
Nell’epoca dei social media ostaggio della propaganda e dell’Intelligenza Artificiale con i suoi video “deep fake”, si discute moltissimo del rischio di perdere la capacità di distinguere il vero dal falso; della possibilità di ritenere come credibili fonti e storie inverosimili. Ma, a guardare bene, il rischio effettivo pare essere quello opposto: quello di non credere più in nulla. Una specie di “sospensione della incredulità” diffusa.
La “sospensione dell’incredulità” è quel meccanismo spesso citato in relazione al cinema – ma in realtà applicabile a ogni tipo di fiction – per cui lo spettatore è disponibile a chiudere un occhio su aspetti inverosimili o buchi di trama, purché la visione sia divertente e coinvolgente. Ciò cui assistiamo oggi nelle nostre società è un fenomeno speculare: il bombardamento costante di pubblicità, notizie, video social, podcast, serie tv, post autopromozionali, fa sembrare la realtà sempre più simile a una fiction, ma poiché non ci piace ci rifiutiamo di credere in alcunché.
Se infatti vediamo persone che paiono convinte di teorie assurde e complotti a dir poco improbabili, dobbiamo ricordarci che si tratta comunque di minoranze tanto agguerrite quanto sparute. La grande maggioranza delle persone, invece, dimostra una crescente disillusione per non dire cinismo: professa più o meno apertamente di non credere in nulla se non in sé stessa, e non perde occasione per dichiarare la propria indipendenza e autosufficienza. Credere in qualcosa è diventato essere creduloni. Appartenere, una limitazione delle proprie libertà.
In questo senso, il diffondersi del complottismo può essere interpretato non con un aumento della credulità di persone sempre meno attrezzate a distinguere ciò che è vero e credibile da quello che non è, ma come una reazione alla desertificazione sociale e alla sovra-stimolazione di “contenuti” cui siamo tutti sottoposti. La risposta al bisogno profondo dell’essere umano di appartenere e di contare; di poter agire sulla realtà invece di esserne un semplice spettatore.
Se io credo in qualcosa, anche se assurdo – o, in un certo senso, tanto più se lo è –, attesto la mia alterità, e allo stesso tempo soddisfo il mio bisogno di fare parte; di essere membro di una comunità che forse non cambierà il mondo, ma almeno ci prova. In questo senso, fateci caso, si ripercorre il classico tòpos narrativo dell’eroe solitario; del protagonista che sente la chiamata di qualcosa di più grande di lui e in cui crede, e che scontrandosi contro la maggioranza inerme o ostile, alla fine prevale – o comunque lotta.
Spesso si ritiene che queste persone, considerate facilmente suggestionabili, siano il grimaldello con cui populisti e reazionari fanno leva per entrare nelle stanze del potere. E potrebbe anche essere, ma va ricordato che il punto vero è che la porta che cercano di scardinare – la moltitudine disillusa e cinica – è diventata molto più fragile. Come diceva un personaggio di un film seminale per la mia generazione: “È più facile dominare chi non crede in niente”.
Sembra pensarla così anche una delle maggiori esperte di autocrazie al mondo, Anne Applebaum. In una sua recente intervista, parlando della propaganda interna russa, ha raccontato come l’effetto cercato da Putin e dai suoi accoliti non è tanto quello di diffondere obbedienza e adesione, ma cinismo e disillusione. Per chi sta al potere o vi ambisce, è più pericoloso un supporter attivo di un cittadino passivo e disilluso; perché il primo potrà rimanere deluso e agire per rovesciare chi ritiene lo abbia tradito, mentre il secondo si limiterà semmai a lamentarsi assistendo impotente.
Infine, una terza convinzione diffusa è che la credulità non sia solo qualcosa che riguarda esclusivamente gli altri ma anche solo certi contesti. Prendiamo il “caso Tony Effe”: la discussione sull’opportunità di far partecipare a un evento organizzato dal Comune di Roma un trapper i cui testi sono giudicati maschilisti e violenti. Chi si oppone evidentemente pensa che quelle canzoni possano innescare comportamenti devianti, mentre dall’altra parte si schiera chi pensa che le narrazioni, per quanto violente, non abbiano mai convinto nessuno ad agire in maniera violenta.
E tuttavia, questa discussione non esiste per gli spot televisivi o per i filmati propagandistici di associazioni terroristiche: prodotti che faticheremmo a definire “culturali” ma ai quali, allo stesso tempo, attribuiamo una grande capacità d’influenza. Paradossalmente, sembra che sia proprio il fatto che qualcosa sia cultura a definirlo come innocuo. Eppure, nella Storia dell’essere umano è valso l’esatto contrario: è sempre stata la cultura a muovere le masse (su questo ha riflettuto da par suo Raffaele Alberto Ventura nel suo ultimo, brevissimo saggio Incanto).
Cosa può essere successo, allora? È come se la fiction, strabordando oltre i confini e i contesti che un tempo la rendevano ben identificabile, si fosse infiltrata nella realtà. La “contentizzazione del tutto” – come l’ha chiamata Francesco Costa in una sua recente newsletter sul caso Mangione –, veicolata dalla pervasività degli strumenti digitali, ha steso una patina d’irrealtà su ogni cosa. La reazione, forse più evidente nei giovani, è il disincanto: un distacco cautelativo da una realtà che peraltro appare spaventosa, e che però ci fa anche sentire comparse sul palcoscenico della nostra vita.
Ma soprattutto, forse, prima di tutto questo non solo credere era più facile, ma anche più conveniente. Perché credere a una narrazione voleva anche dire appartenere: sentire di aderire a un gruppo di persone non solo per questioni di status o di posizionamento sociale, ma anche e specialmente perché si condivideva una visione del mondo. Forse, allora, è proprio questo di cui avremmo bisogno: non cercare di allenare le persone a capire in cosa non si deve credere, ma dargli un motivo valido per farlo.