
di Guia Soncini (linkiesta.it, 7 marzo 2025)
«Ma io dico, ma Totti no, all’Europeo che fa il cucchiaio, prima del calcio di rigore je vai a chiéde la foto?». Lo dice Tony Effe, chiunque egli sia, intervistato alla tele da Alessandro Cattelan, e lo dice rovinandosi per sempre la possibilità d’avere una carriera televisiva: si sta lamentando dei microfonisti che a Sanremo gli chiedevano una foto assieme un secondo prima che salisse sul palco, i tecnici Rai hanno memoria da elefanti, Tony Chi? dovrà espiare a lungo.
Un mio amico che di mestiere fa la persona famosa una volta mi ha detto una frase che mi sono conservata per prima o poi farne sette volumi su quel tessuto connettivo lasso che è la celebrità, che tutti i famosi giurano di amare e io sono certa certissima sia un inferno, una vita di rotture di coglioni che nessuna precedenza nelle prenotazioni al ristorante giustifica. La frase faceva così: «La fama ti fa sentire come Gesù, ma purtroppo un Gesù donna, quindi vittima. Gesù era un grande perché non c’è un minimo di vittimismo in tutto il Vangelo. Tranne alla fine sul “perché mi hai abbandonato” – che è quello che chiede il famoso al pubblico dopo il primo flop».
L’altro giorno mi è comparso su Instagram il video d’un’attrice che raccontava gli inizi della sua carriera, la lettera che aveva scritto a un’attrice più famosa, come quella l’aveva incoraggiata. Era una storia di inizi come ne abbiamo sentite raccontare tante da tanta gente famosa quand’esisteva la fama. La differenza è che questa qui io non l’avevo mai vista. Non aveva neanche una di quelle facce che dici sì so di conoscerla ma ora non ricordo in che film era. Proprio mai vista. Sono andata a cercare il nome: mai sentita. Aveva quarant’anni, mi ha detto l’Internet, e mi sono stranita: non è una ragazza emergente, com’è possibile che non l’abbia mai sentita nominare?
Certo, c’entrano le piattaforme: ormai si produce tanta di quella roba che è impossibile star dietro a tutto, ma non funziona mica così. La fama non è di coloro che hanno fatto roba che hai visto o letto o sentito. La fama è di più. Sapevo chi fosse Liz Taylor molto prima di vedere Chi ha paura di Virginia Woolf? Sapevo chi fosse Fabio De Luigi pur non avendo mai visto Mai dire gol. Sapevo chi fosse Umberto Eco e che aveva scritto un romanzo di cui tutti parlavano anche se avevo otto anni e Il nome della rosa non l’avevo letto. Quand’è finita, questa cosa qui?
C’è stata una fase, credo intermedia, che è quella che chiameremo della parrucchiera di Hannover. L’aveva detto Hans Magnus Enzesberger, che sapevo esistesse pur non avendolo mai letto perché l’avevo sentito citare da Michele Serra, avrò avuto vent’anni. Diceva Serra che diceva Enzesberger che il monaco cistercense aveva trecento nozioni, sapeva metterle in collegamento tra di loro, e quindi aveva una cultura; la parrucchiera di Hannover aveva tremila nozioni tra nomi di tinture e di cantanti, ma non aveva una cultura.
È iniziata coi palinsesti di ventiquattr’ore, c’era gente che faceva le televendite, e concorrenti di quiz, e tronisti, e concorrenti di reality, e personaggi di soap opera: era impossibile conoscerli tutti. Però lì aveva ancora un senso, perché quei pezzettini di fama erano come i pezzettini di fama che ora stanno su Instagram: gente che è notissima a chi la segue, e che non esiste per tutti gli altri. La chiameremo fama frammentaria – mentre quella del Novecento era una fama totalitaria. Sarà finita con la fine dei totalitarismi.
Ieri un’amica mi diceva che un milanese che hanno arrestato per varie nefandezze tutti sapevano chi era, metteva su Instagram video in cui pippava, e io tentavo di spiegarle che io non lo sapevo, per la banale ragione che nell’Instagram di questo tizio non ero mai inciampata. Era già così molto prima dei social: se uno nel primo pomeriggio lavorava, i nomi dei tronisti di Uomini e donne mica li sapeva, negli anni in cui la tv si guardava mentre andava in onda.
«Siamo la coda del sistema in cui si potevano fare tre o quattro film per gli stessi produttori con una qualche coerenza complessiva: quella cosa non esiste più. È più difficile vendere qualcosa col solo nome della star, ma è un gran momento per gli attori giovani. Quando ho cominciato, ogni lunedì cercavamo sul Los Angeles Times la lista delle sessantaquattro serie televisive in produzione: anche se eri abbastanza fortunato da essere in una, dovevi fare tutto il possibile perché fosse tra le venti più viste, perché non la chiudessero. Un produttore faceva cinque film l’anno, non è più così: si fanno seicento serie. Quindi c’è molto più lavoro per gli attori». L’ha detto George Clooney l’estate scorsa a GQ, in un’intervista in cui promuoveva il film con lui e Brad Pitt che facevano gli anziani criminali, Wolfs.
Poi sono andati a Venezia a fare i divi d’una volta, poi il film è arrivato su Apple, poi è stato per la milionesima volta chiaro che seicento serie l’anno non sono necessariamente una buona notizia. Certo, gli attori che una volta non avrebbero mai combinato niente potranno dire alla mamma al paese che hanno avuto un ruolo da protagonista, ma in una roba che avrà visto solo la mamma al paese, e forse una zia emigrata: persino mettere due totalitari come Clooney e Pitt in un film non garantisce più che lo vedano tutti. Di personaggi che tutti sanno chi siano, a parte i relitti del Novecento e della fama vera come Clooney e Pitt, è rimasta solo la Ferragni. Di cose che tutti guardino, solo Sanremo.
E quindi non può che finire così: che, quando la celebrità celebre solo per chi sa chi è, quando la celebrità parziale di questo secolo frammentario si trova nell’unico programma totalitario, l’unico punto del palinsesto celebre per tutti, quello che guardiamo talmente tutti che abbiamo tutti amici che sentono l’urgenza ogni anno per una settimana di parlarci a lungo del fatto che loro non guardano Sanremo, sentendosi per questo specialissimi, quando un Tony Effe (chi??) si trova nel posto che tutti sanno cosa sia, allora certo che il microfonista se ne frega della sua concentrazione da calcio di rigore e gli chiede il selfie come farebbe Enzesberger incontrando una tronista: tu finisci qui e torni un nessuno, famoso solo in nicchie – enormi, ma sempre nicchie; io, beh, io sono un microfonista della settimana televisiva che ferma l’Italia: vuoi mettere?
Si reincontreranno quando, stufo dei tentativi in nicchie minori, Tony Chi? tornerà a Sanremo, e quella volta come massimo sfregio il microfonista non gli chiederà foto insieme, video per il nipote, dediche, niente. E sarà allora che Tony, pentito, ritornerà in ginocchio da chi non gli dà più prove del suo valore e della sua notorietà, e farà la domanda che fanno i famosi in declino: perché mi hai abbandonato?