di Daniele Cassandro (internazionale.it, 23 maggio 2023)
Reach for the stars di Michael Cragg è uno dei libri musicali più divertenti e documentati che abbia letto ultimamente. È una storia orale del pop britannico dal 1996 al 2006 che parte da un assunto: le Spice Girls sono state il big bang dalla cui esplosione (che nessuno si aspettava) è nata l’ultima grande, profittevole stagione del pop inglese, prima che si arenasse nelle sabbie mobili dei talent show e degli algoritmi dello streaming.
Girl group come le Sugababes, le Atomic Kitten, le B*Witched e poi gli Steps, i 5ive, i Westlife, gli S Club 7 sono stati un’ondata di “manufactured pop” (pop industriale creato a tavolino) che ha saputo essere commercialmente e culturalmente rilevante per quasi un decennio. Cragg intreccia le parole dei protagonisti di quella stagione e ne racconta gli alti e bassi, le idee geniali e i tonfi clamorosi, le figure di merda, gli esaurimenti nervosi, le gravidanze indesiderate e i successi inattesi. Eppure, prima delle Spice Girls (e molto prima di Avril Lavigne e delle t.A.T.u.) c’erano state, nel 1994, le Shampoo. E Cragg le nomina solo una volta nel suo libro attraverso le parole di Geri Halliwell, ovvero la rossa delle Spice Girls: «Il girl power era una cosa organica che già esisteva dentro di noi. La prima volta quell’espressione l’avevo sentita dalle Shampoo e ho pensato: oh, che bello».
Il girl power (la forza delle ragazze, anzi delle ragazzine) oggi ci sembra una caricatura a cartoni animati del femminismo “vero”, quello delle attiviste e delle donne più grandi. E in un certo senso lo era. Però, e Cragg lo spiega bene nel libro, nel contesto degli ultimi fuochi del britpop, che si portava dietro anche i cascami di una “lad culture” molto maschilista (da noi in Italia, in contemporanea, c’era l’epoca d’oro dei calendari), il girl power scherzoso e superpop delle Spice aveva un suo senso antagonista. Era un modo per dire alle ragazzine: anche voi potete divertirvi, uscire a ballare e a bere birra vestite come vi pare e trovarvi un fidanzato non è la priorità perché “friendship never ends”: la sorellanza e la complicità tra amiche vi faranno sentire forti e indipendenti. Non era certo un messaggio nuovo o particolarmente dirompente, però tra le teenager del Regno Unito di metà anni Novanta fu una bomba.
Dunque le prime a parlare di girl power, come ammette la stessa Halliwell, erano state le Shampoo, un duo di manufactured punk-pop formato nel 1993 da due ragazze, Jacqui Blake, 19 anni, e Carrie Askew, 16 anni. Le due avevano una loro credibilità indie: a scuola curavano una fanzine dei Manic Street Preachers ed erano riuscite, come fan, a comparire nel video del singolo Little baby nothing, un pezzo sullo sfruttamento sessuale delle ragazze da parte dei mezzi di comunicazione cantato in duetto con la pornostar Traci Lords. Alle due ragazze l’idea di mettere su un duo punk era venuta a scuola: si chiamavano Shampoo perché era la scusa che usavano per liberarsi dei ragazzi che chiedevano loro di uscire: «No, mi dispiace, dobbiamo lavarci i capelli».
Nel 1993 uscirono i primi due singoli: Blisters and bruises (scritta con Lawrence dei Felt, storica band new wave britannica) e Bouffant headbutt. Il secondo titolo potrebbe essere tradotto come “Una testata cotonata”, o qualcosa del genere. Entrambi i 45 giri uscirono per la Icerink, l’etichetta del gruppo pop Saint Etienne ed erano pezzi grezzi e chiaramente derivati dal movimento punk femminista delle riot grrrl dei primi anni Novanta. Quando si è trattato di mettere insieme l’album di debutto, We are Shampoo, le ragazze, con la guida del produttore Con (Conall Fitzpatrick), hanno cercato un suono più pop mantenendo i loro testi ironici e un po’ abrasivi, sempre in bilico tra riot grrrl e piccoli grandi drammi da liceali.
Tra le loro influenze le Shampoo citano, molto saggiamente, Sex Pistols, Gary Numan e Beastie Boys, ma anche Take That e East 17. In realtà sono una sorta di media matematica tra le prime Bananarama (quelle che ancora squattavano a Soho e si ubriacavano al Carnevale di Notting Hill) e le Fuzzbox (o meglio le We’ve got a Fuzzbox and we’re gonna use It!!), una girl band inglese degli anni Ottanta ingiustamente dimenticata. Scorrendo l’elenco dei musicisti che hanno lavorato sull’album compaiono ben sette tra coriste e coristi, il che lascia un dubbio sull’effettivo apporto vocale di Jaqui e Carrie. Ma quando si parla di ultrapop, chi canta davvero rischia di essere una questione di scarsissima importanza.
Trouble si rivelò un singolo particolarmente riuscito e arrivò perfino a lambire la Top 10 britannica. È una canzone pop incalzante che parla di come le due ragazze si ritrovano da sole di notte nel centro di Londra sotto la pioggia. L’ultimo treno è partito, l’ultimo autobus notturno non si vede all’orizzonte e di un taxi neanche si parla perché nella loro borsetta di peluche a forma di orsetto non c’è un soldo. “Che casino!”, si rimbeccano le due. “Ora sì che siamo davvero nei guai”. Le protagoniste della canzone finiscono per rubare una macchina che non sanno guidare e finiscono dritte in commissariato. Il papà imbestialito che le aspetta a casa è un panzone con una vecchia t-shirt dei Sex Pistols. Trouble, spogliata della sua glassa pop-punk, è l’embrione di Wannabe delle Spice Girls, sia per il suo andamento saltellante, quasi rappato, sia per il messaggio: l’amicizia tra ragazze è più forte di qualunque calamità.
Il secondo singolo, Viva la Megababes, è invece una celebrazione della loro coolness: “Guardateci, siamo due terminator teenager bionde!”. Come tutte le ragazze molto giovani, anche le Shampoo si definiscono in base a ciò che non sono e che non vogliono essere: “Le tipe mezze hippy sono tristi, le supermodel fanno schifo, le riot girls e quelle sempre a dieta… davvero, non ce ne frega un cazzo!”. Le Shampoo, va detto, si permettevano un linguaggio che le più caute Spice Girls non si sarebbero azzardate a usare. Le Shampoo, pur essendo la più artificiale delle pop band creare a tavolino, hanno un’onestà, una freschezza e una ruvidezza che oggi sarebbero impensabili.
Jacqui e Carrie sono due teenager qualunque: odiano la scuola (School is boring), il pop da classifica (in Dirty old love story insultano direttamente Mariah Carey e Whitney Houston), e i ragazzi narcisi e vanesi (Skinny white thing è un ritratto del britpopper un po’ poser che non può non far pensare ai cloni di Brett Anderson degli Suede). In Shiny black taxi cab le Shampoo fantasticano su una notte brava su e giù per Soho su un grande taxi. Alla fine del pezzo si sente la voce di un tassista incazzato che vomita i suoi luoghi comuni, ahimè uguali in tutto il mondo: “Ho preso su due ragazzine l’altra sera, hanno vomitato su tutti i sedili e gli ho fatto pagare doppio… dovrebbero ripristinare le bacchettate… i lavori socialmente utili… dovremmo tornare all’impiccagione, l’impiccagione è troppo poco per loro!”.
Le Shampoo erano troppo sgangherate, troppo sboccate e troppo indisciplinate per costruirsi un vero, duraturo successo. Però sono state il seme da cui il girl pop della seconda metà degli anni Novanta e dei primi Duemila è germogliato. Le Spice Girls hanno ottimizzato la loro formula rendendola più commercialmente appetibile e universale. E, crudeltà della sorte, nel 1996, proprio quando il secondo e ultimo album delle Shampoo, profeticamente intitolato Girl power, languiva in fondo alle classifiche di vendita, le Spice uscivano con Wannabe, infrangendo ogni record di vendita e impossessandosi del concetto di “potere delle ragazzine”, che, alla fine, era stato inventato e lanciato proprio da Jacqui e Carrie. Le Shampoo hanno continuato ad avere una carriera in Giappone, la terra promessa del girl pop, fino ai primi anni Duemila e We are Shampoo è stato ristampato nel 2007 con una serie di bonus track.