(ilpost.it, 19 novembre 2022)
Un paio di settimane fa il giovane attore Kit Connor – diventato famoso quest’anno per aver interpretato il ruolo di Nick Nelson, protagonista della serie Heartstopper che scopre di essere bisessuale innamorandosi di un compagno di scuola – è tornato su Twitter dopo settimane di assenza per fare un annuncio: «Sono bisessuale. Congratulazioni per aver costretto un diciottenne a fare coming out. Penso che molti di voi non abbiano colto il punto [di Heartstopper]. Ciao».
Nei mesi precedenti, Connor aveva lasciato qualche commento ammiccante sotto ai post di alcuni colleghi uomini e aveva partecipato insieme al resto del cast al Pride di Londra, ma non aveva mai discusso pubblicamente il proprio orientamento sessuale. Dopo che un paparazzo aveva condiviso una foto in cui Connor teneva per mano l’attrice Maia Reficco, con cui sta lavorando a un nuovo film, era stato accusato da diversi fan on line di fare “queerbaiting”, ovvero di aver finto di essere parte della comunità Lgbtq+ per ottenere attenzione e consensi, pur essendo in realtà eterosessuale. Alla fine insomma le pressioni e le critiche sul suo conto lo hanno spinto a fare coming out, cioè a rivelare di non essere eterosessuale: un tipo di annuncio che dovrebbe derivare eventualmente da una propria libera scelta, e coi tempi e i modi preferiti.
Secondo l’Oxford English Dictionary, che ha introdotto una definizione moderna del termine soltanto l’anno scorso, il queerbaiting è «la pratica di cercare di attrarre e capitalizzare il pubblico o i clienti Lgbtq in modo ingannevole o superficiale». A lungo se ne è parlato on line solo per descrivere quei prodotti di intrattenimento come film e serie tv che puntavano a fidelizzare gli spettatori Lgbtq+ inserendo personaggi che hanno un trasporto molto forte ed evidente nei confronti di altri personaggi dello stesso sesso, senza però andare mai oltre le allusioni o l’amore platonico. In molti di questi casi gli stessi sceneggiatori, creatori o attori coinvolti nella serie hanno alimentato le teorie degli spettatori riguardo a queste ipotetiche attrazioni omosessuali, convincendo le persone a continuare a seguire la storia nella speranza di vedere finalmente insieme dei personaggi tanto innamorati l’uno dell’altro.
«Il queerbaiting è invalidante. Perpetua l’idea che le persone queer non possano avere un lieto fine. Rafforza l’idea che i produttori televisivi abbiano troppa paura di includere personaggi apertamente queer per paura delle reazioni del pubblico (come in Buffy l’ammazzavampiri, quando i registi trasformarono un bacio bollente e romantico tra Buffy e Faith in un bacio sulla fronte). Alimenta le speranze degli spettatori queer, che sono alla ricerca di una rappresentazione autentica, soltanto per poi distruggerle in un pessimo tentativo di ottenere visibilità» ha commentato la critica Isabel Harder sulla rivista canadese Capital Current.
Le discussioni sul tema cominciarono a moltiplicarsi on line all’inizio degli anni Dieci, soprattutto su piattaforme come Tumblr e Twitter, che raggruppano grandi comunità di fan particolarmente attenti e spesso appartenenti alla comunità Lgbtq+. Ad essere accusati a torto o a ragione di queerbaiting nel tempo sono stati molti prodotti celebri, tra cui i film Marvel in cui compaiono Capitan America e Bucky Barnes e la serie Supernatural, in cui i protagonisti Dean e Castiel hanno impiegato quindici stagioni prima di dirsi «ti amo». Un altro esempio molto celebre è quello di Sherlock Holmes e il dottor Watson nella serie della Bbc andata in onda tra il 2010 e il 2017, in cui l’intimità e la fedeltà tra i due protagonisti non solo sono evidenti ma vengono anche commentate in modo ammiccante da vari personaggi all’interno della serie stessa.
In altri casi si è parlato di queerbaiting quando un film o una serie in uscita è stata definita «inclusiva» dalle persone che ci hanno lavorato, salvo poi includere a malapena una o due scene che mostrassero, molto velocemente, relazioni omosessuali. È quello che è successo con Thor: Love and Thunder della Marvel, che l’attrice Natalie Portman aveva definito «molto gay» ma che, alla fine, conteneva appena una singola scena in cui due alieni dello stesso sesso, non particolarmente rilevanti ai fini della storia, si sposavano. O con Star Wars: L’ascesa di Skywalker, che secondo il regista J.J. Abrams includeva una «rappresentazione queer», ma che aveva una sola scena in cui due donne senza nome si baciavano sullo sfondo.
La Disney, in particolare, riceve questo genere di critiche da tempo: secondo la professoressa Kodi Maier dell’Università di Hull, l’azienda «è disposta a creare film d’animazione e programmi televisivi che alludano a contenuti queer, ma solo a condizione che non danneggino la sua immagine conservatrice». Se ne è parlato analizzando l’amicizia molto intensa tra Luca e Alberto, protagonisti del film d’animazione del 2021 Luca, che parla delle difficoltà nell’essere accettati dalla propria famiglia in quanto diversi. Ma anche in riferimento ai tanti personaggi femminili forti e indipendenti che rifiutano di stare con un uomo che si sono visti nei film Disney negli ultimi anni, come la regina Elsa in Frozen o la protagonista di Raya e l’ultimo drago.
In alcuni casi, soprattutto quando si tratta di cartoni animati, il divieto di esplicitare l’omosessualità di un personaggio arriva dall’alto: i creatori di The Legend of Korra, uno dei primi cartoni animati ad avere una protagonista queer, hanno per esempio confermato a voce che il rapporto tra Korra e Asami è romantico, ma hanno ammesso di aver lasciato una certa ambiguità al riguardo nella serie per assicurarsi che l’emittente la mandasse comunque in onda. Più di recente, gli autori di Scooby-Doo hanno detto di sapere da più di un decennio che una delle protagoniste del cartone animato, Velma, è lesbica, ma che è stato a lungo impossibile per loro includere questo lato della sua identità negli episodi. «Nella sceneggiatura iniziale del film del 2001, Velma era esplicitamente lesbica. Ma lo studio continuava ad annacquarlo, e alla fine le hanno dato un fidanzato maschio» ha detto uno degli autori, James Gunn.
Negli ultimi anni, però, le accuse di queerbaiting hanno cominciato ad essere applicate non solo a prodotti d’intrattenimento e personaggi fittizi, ma anche a celebrità in carne e ossa, colpevoli secondo alcuni fan di atteggiarsi come se fossero parte della comunità Lgbtq+ senza esserlo davvero, per attirare il sostegno dei fan queer, oppure di non avere il coraggio di fare coming out ed esporsi a possibili critiche in un mondo in cui l’omotransfobia è ancora un problema. Oltre a Kit Connor, celebrità come le cantanti Taylor Swift, Ariana Grande e Billie Eilish e l’attore Andrew Garfield si sono trovati spesso a dover ignorare o schivare voci molto insistenti che chiedevano loro di esplicitare il proprio orientamento sessuale.
Senza dubbio ad attrarre più spesso questo genere di critica, però, è Harry Styles, che punta moltissimo su un’estetica che ribalta le aspettative che si hanno normalmente per un uomo etero – indossando spesso lo smalto sulle unghie, ma anche orecchini di perle, camicette con volant, vestiti svolazzanti e paillettes – e che di recente ha interpretato il ruolo di un poliziotto gay in My Policeman. Diversi commentatori, dopo il coming out forzato di Kit Connor, hanno cominciato ad esaminare e criticare la pratica di accusare di queerbaiting le celebrità, sottolineando che è ingiusto chiedere insistentemente a delle persone di discutere la propria sessualità in pubblico anche quando non sono pronte per farlo, che sia per motivi di privacy, di sicurezza o soltanto perché ci stanno ancora pensando.
«Sindacando se Harry Styles sia “autorizzato” a indossare un boa di piume verdi sul palco, o se Billie Eilish possa includere riferimenti saffici nei suoi video musicali, o se Kit Connor possa interpretare un adolescente bisessuale senza confermare esplicitamente che lui stesso è un adolescente bisessuale, creiamo una gerarchia della queerness, come se ci fosse un modo giusto o sbagliato per essere effettivamente queer», ha scritto Patrick Lenton su Vice. Discutendo esplicitamente del caso di Harry Styles, lo scrittore Otamere Guobadia su i-D spiega che, agli occhi di chi lo critica, sarebbe facile e conveniente per il cantante mostrarsi trasgressivo e anticonformista indossando vestiti che non sono conformi al suo genere, mentre le persone non famose che si vestono così per strada rischiano reazioni violente. Il sottotesto è che alcune persone queer trovano immeritato che Styles ottenga tanta attenzione vestendosi in modo non conforme al suo genere, a maggior ragione perché il cantante si è sempre rifiutato di definire pubblicamente la sua identità sessuale ed è sempre stato visto soltanto con partner femminili.
«Chi sostiene questa posizione si rende conto che esiste un’ingiustizia reale, ovvero che molte persone queer lottano quotidianamente per la propria vita e il proprio sostentamento e sono alla disperata ricerca di compagni che combattano al loro fianco, mentre le star accumulano elogi ipocriti quando fanno proprie le estetiche create da persone marginalizzate. Ma concentrare la propria attenzione su questo genere di critica, che si ferma al piano simbolico, vuol dire non affrontare gli effettivi fattori strutturali che impediscono alle persone gay e queer di accedere a diritti e risorse. […] Insomma, dobbiamo smetterla di rivolgere accuse di queerbaiting ai personaggi pubblici, perché non ha un effetto liberatorio per le persone e la comunità queer, bensì una conseguenza deleteria: porta a vedere determinate qualità estetiche o comportamenti come intrinsecamente queer. E costringe le celebrità a scegliere le parole per definire, o in alcuni casi confinare, la propria esperienza di genere e sessualità in forme che per noi, il loro pubblico, siano soddisfacenti e riconoscibili».