(linkiesta.it, 26 agosto 2024)
Il fondatore di Telegram Pavel Durov ora è nelle mani della giustizia francese. Sabato scorso è stato arrestato in un aeroporto vicino a Parigi perché ritenuto complice nelle numerose attività illegali che avvengono sulla piattaforma e responsabile dell’assenza di un sistema di moderazione dei contenuti. Il magistrato ha prolungato la custodia cautelare per un massimo di 96 ore, poi potrà decidere se liberarlo o incriminarlo, ed estendere quindi ulteriormente la permanenza dietro le sbarre.
Nato a San Pietroburgo 39 anni fa (da padre russo e madre di origine ucraina), ma apolide da tempo, con residenza a Dubai, Durov ha un patrimonio di 15 miliardi di dollari ma nessuna proprietà. Ha fondato Telegram in Russia nel 2013, lasciando il Paese nel 2014 dopo essersi rifiutato di consegnare a un’agenzia di intelligence russa i dati ucraini di VKontakte, il social network più usato in Russia, che aveva fondato nel 2006 insieme al fratello Nikolai. Cede il social a imprenditori graditi al Cremlino, lasciando il Paese con un assegno da 300 milioni di dollari.
Quando fonda Telegram con i propri soldi parla, infatti, di un progetto «per prenderci il nostro diritto alla privacy e uscire dal regime di sorveglianza». Il sistema di messaggistica è simile a WhatsApp, ma le conversazioni non lasciano traccia sui server e la crittografia promette di renderle inaccessibili. Ma dietro alla barriera tecnologica di riservatezza, sulla piattaforma sono fiorite attività illegali di ogni tipo, tra cui lo spaccio di sostanze stupefacenti e le truffe, campagne di disinformazione e pornografia.
Telegram, con sede a Dubai e un valore di 30 miliardi, viene visto da molti come uno spazio dove vige una certa impunità rispetto alle altre grandi piattaforme commerciali. Ma la società da tempo si rifiuta sistematicamente di collaborare con governi e forze dell’ordine per rimuovere contenuti considerati dannosi. Pur limitando contenuti come l’incitazione alla violenza, la piattaforma ha sempre detto di non avere intenzione di «bloccare chi esprime pacificamente altre opinioni» perché «tutte le chat e i gruppi di Telegram sono territorio privato dei loro rispettivi partecipanti».
Durov ora potrebbe essere accusato di complicità con le attività illegali esplose su Telegram, non avendo fatto nulla o troppo poco per ostacolare o interrompere quelle attività. Tra i passaporti collezionati da Durov, insieme a quelli degli Emirati e dell’isola caraibica di Saint Kitts, c’è proprio quello francese, Paese da cui non può essere estradato. Secondo il comunicato di Telegram, «Durov non ha nulla da nascondere» ed «è assurdo sostenere che una piattaforma o il suo proprietario siano responsabili per gli abusi compiuti sulla piattaforma».
La società ha risposto pubblicamente alle accuse, sostenendo tra l’altro di rispettare le regole del Digital Services Act (Dsa), la legge europea sulla sicurezza e sulla trasparenza dei servizi digitali. Telegram ha circa 40 milioni di utenti nell’Unione Europea, quindi è appena al di sotto della soglia oltre cui il Dsa considera i siti come «grandi piattaforme», ovvero quelle con più di 45 milioni di utenti. Pur essendo molto diffuso, non è quindi sottoposto alle regole imposte alle piattaforme più grandi.
Intanto, si sono già mossi i difensori della libertà di opinione in soccorso di Durov. Elon Musk, sponsor di Donald Trump, ha attaccato la Francia in nome della libertà di parola. E dalla destra italiana Matteo Salvini ha denunciato a sua volta la «censura europea». Anche Edward Snowden, dalla Russia, ha scritto che l’arresto di Durov è un attacco «ai diritti fondamentali di parola e associazione». Persino il Cremlino, che nel 2018 aveva minacciato di bandire Telegram, ha criticato la Francia per l’assenza di informazioni sulla detenzione del suo cittadino.