di Guia Soncini (linkiesta.it, 23 marzo 2023)
Sono la peggior critica culturale del mondo: mi sveglio sempre tardi, quando i film li hanno smontati, i libri sono già in edizione economica, i fenomeni sono vintage. Questa volta avete ancora tre giorni. Tre giorni per andare a fare il weekend a Londra e vedere la mostra che c’è fino alla fine di questa settimana alla Raven Row, una galleria che ha di fianco un baluardo di civiltà: un parrucchiere con la piega differenziata. Ci sono gli orari a prezzo normale, quelli scontati, quelli maggiorati.
Se volete farvi asciugare i capelli quando ci vogliono andare tutte, il mercato vi punisce. Se non è un’allegoria culturale questa. La Raven Row è una galleria su tre piani che, fino a domenica, è piena di televisori. Potete farvi dare delle cuffie e andare nel seminterrato a guardare vicini ma distanti lo stesso televisore con un altro po’ di gente, mentre tre metri più in là altri pure stanno in compagnia da soli davanti allo stesso apparecchio. Oppure andare in una delle sale con un solo televisore l’una, dove senza cuffie potete fare la stessa cosa che fanno di sotto: assistere a una lezione di storia del Novecento in forma di programmazione della Bbc.
Non tutta la Bbc: quella che, molto prima di Instagram (e in contemporanea ai microfoni aperti di Radio Radicale, che ci tengo a ricordare essere matrici dello sfascio contemporaneo), decise che l’attivismo politico andava reso visibile. Cominciò così Open Door, che tra il 1973 e l’83 mandò in onda 243 puntate in cui a parlare dei loro problemi in un pezzetto di tv autogestita c’erano, copio la lista dalla brochure della mostra, «contadini e anarchici, insegnanti neri, preti donne, gente che faceva le pulizie, associazioni di case popolari, donne trans, ex galeotti, liberi pensatori, e avvistatori di extraterrestri». Una volta in un talk show italiano qualcuno descrisse la casa d’uno scrittore come un posto al cui desco si potevano incontrare «Umberto Eco, un musicista africano, un cane»: Open Door ne fu la versione Bbc (pochissimi gli Eco).
Quando arrivo alla Raven Row, dove ci sono in mostra cento delle puntate di Open Door, col titolo People Make Television, penso che sia la solita scena della borghesia istruita dell’Occidente benestante che si contrisce per gli oppressi. Una sala di bianchi tutti bianchi solo bianchi guarda in silenzio una puntata sull’oppressione dei neri, avendo preso evidentemente assai sul serio il concetto instagrammatico di “Educate yourself”. Ma l’allestimento ricorda quella vignetta del New Yorker in cui una visitatrice del Met o altro museo newyorkese dice che il suo quadro preferito è quello davanti al quale c’è una panca: ci sono i divani, e persino delle prese dalle quali posso ricaricare il telefono. Così resto lì seduta abbastanza a lungo da vedere arrivare un visitatore nero. Che inizialmente resta sulla soglia, magari non troppo interessato all’oppressione che teoricamente lo riguarda, e decide di sedersi solo quando quella puntata finisce, e sul televisore della sala in cui ci troviamo compare la scritta «1973, Transex Liberation Group». Cinquant’anni fa.
Il nero guarda le trans, e io penso a quel momento nello spettacolo di Ricky Gervais – varrà la pena parlarne più diffusamente, ci vediamo qui domani – in cui un padre sbuffa perché deve comprare una carrozzina elettrica al figlio senza braccia e senza gambe, cheppalle questo sempre regali dispendiosi, e Gervais esorta il pubblico a non sentirsi in colpa nei confronti del piccolo Timmy, che è pure razzista: dice che i neri non sono uguali a noi, ma nessuno è uguale a te, storpio. Si potrebbe ancora fare, un Open Door, in un’epoca in cui fa sganasciare dal ridere chiunque parli di «invisibilizzazione» – tutti i problemi, anche i più minuscoli, sono visibili, e non ce ne frega niente esattamente come quand’erano invisibili –, avrebbe ancora senso dare in autogestione la tv a un mondo che ha i social? Forse no, forse sì.
Forse Fiorello che fa ballare Cicale ai due finti finanzieri, mettendo su un minuto di tv che è già Techetechetè con vent’anni d’anticipo su quando verrà recuperato dall’archivio, è la dimostrazione che i contesti contano ancora qualcosa: il meme sparisce sommerso da altre scemenze dell’Internet tra un minuto, la tv no. Forse i rappresentanti del gruppo animalista che portano nello studio della Bbc le galline senza rendersi conto che moriranno cotte dai riflettori oggi ci farebbero venire il dubbio di voler solo diventare gif; cinquant’anni fa, diventavano storia della tv anche perché non stavano provando a diventarlo (quando la storia della tv ancora non esisteva, farla era più facile, e si potevano mangiare anche le fragole). Di fronte alla galleria d’arte c’è un Ottolenghi, locali londinesi la cui assegna-tavoli se la tira come fosse a New York negli anni Novanta. New York negli anni Novanta è stata l’ultimo luogo e momento in cui i ristoranti si sono potuti permettere di tirarsela, ma la tizia che col locale mezzo vuoto in orario non maggiorato ti dice di non avere posto non lo sa, che quel mondo lì è finito, e se la tira lo stesso; come le galline alla Bbc.