(linkiesta.it, 28 settembre 2021)
È quasi un anno ormai che Donald Trump grida al colpo di Stato come il cane che abbaia alla Luna. Fin dalle ore successive all’election day dello scorso novembre, l’ex presidente reclama la vittoria, definisce irregolare il voto che ha premiato Joe Biden, prova a corrompere le istituzioni democratiche degli Stati Uniti per ribaltare il risultato delle urne. Diversi mesi fa uno degli avvocati del team legale di Trump, John Eastman, aveva perfino redatto un documento – piuttosto assurdo – in cui spiegava che l’allora vicepresidente Mike Pence avrebbe potuto ribaltare le elezioni del 2020 con un decreto. Cosa ovviamente non vera, come hanno riportato anche i giornalisti del Washington Post Bob Woodward e Robert Costa nel loro ultimo libro Peril.
Anche l’ex vicepresidente Mike Pence aveva pensato sul serio di poter fare un’operazione del genere, e solo l’intervento di Dan Quayle (vicepresidente prima di lui, durante l’amministrazione di George H.W. Bush) l’aveva dissuaso. Tutte tessere di un mosaico complottista che oggi appare più che mai evidente. «A quanto pare Trump e i suoi consiglieri avevano escogitato dei piani veri e propri per sovvertire la sconfitta elettorale», scrive l’Atlantic. L’articolo della rivista statunitense, firmato da Adam Serwer, individua cinque punti, cinque evidenze del tentato golpe trumpista.
Il primo passo è stato il tentativo di fare pressione su molti segretari di Stato – funzionari del governo di ogni singolo Stato della federazione – affinché non certificassero il voto. Infatti i risultati elettorali statunitensi venivano conteggiati a scaglioni, poco per volta, seguendo le dinamiche di uno spoglio che non solo attraversa diversi fusi orari, ma ha visto procedure differenti e più di una modalità di voto. In particolare, i voti per corrispondenza sono stati conteggiati dopo. E quelli, secondo Trump, avrebbero fatto parte di una teoria del complotto: l’ex presidente insisteva sul fatto che i Democratici stavano in qualche modo inserendo schede fraudolente nel conteggio dei voti (a quanto pare si sarebbero dimenticati di fare lo stesso anche per il voto alla Camera e al Senato, dal momento che lì il voto è andato peggio di quanto previsto dai sondaggi). «E per corroborare queste falsità, chi gestiva la campagna elettorale di Trump ha tentato di fare pressione sui segretari di Stato per non certificare i risultati o “trovare” schede elettorali fraudolente. In alcuni Stati, spinti dalle bugie del presidente, la folla pro-Trump si è presentata ai seggi al momento del conteggio dei voti e ha tentato di interrompere il procedimento», si legge nell’articolo.
Dopo i segretari di Stato, Trump ha puntato i parlamenti statali: ha personalmente tentato di costringere alcuni membri delle assemblee a ribaltare i risultati delle elezioni, soprattutto negli Stati che hanno votato in maggioranza per Biden. Faceva affidamento sulla dubbia teoria giuridica secondo cui quei parlamenti avrebbero potuto semplicemente ignorare i risultati del voto popolare nei propri Stati. In Pennsylvania, Michigan, Arizona e Georgia, Trump ha pubblicamente esortato le autorità statali controllate dai Repubblicani a «intervenire per dichiararlo vincitore» e ha twittato: «Speriamo che i tribunali e/o le assemblee abbiano il CORAGGIO di fare ciò che deve essere fatto per mantenere l’integrità delle nostre elezioni e gli stessi Stati Uniti d’America».
La terza strada battuta dall’ex presidente per cambiare l’esito del voto – visto che proprio non poteva accettare la sconfitta – è quella dei tribunali. Il procuratore generale del Texas, Ken Paxton, ha intentato una causa assurda chiedendo che la Corte Suprema annullasse i risultati delle elezioni in Wisconsin, Georgia, Michigan e Pennsylvania, quattro Stati vinti da Biden. La grande maggioranza della delegazione repubblicana al Congresso, così come quasi 20 procuratori generali dello Stato repubblicano del Texas, ha sostenuto questo tentativo di chiedere alla Corte suprema, controllata dai conservatori, di annullare i risultati delle elezioni del 2020 per decreto. «I giudici» scrive l’Atlantic «hanno rifiutato di incoronare Trump, ma la quantità di sostegno che questa offerta ha ricevuto dai funzionari eletti Repubblicani è di per sé allarmante. Trump ha tentato di costringere il Dipartimento di Giustizia a fornirgli un pretesto per ribaltare i risultati, ma il procuratore generale, Bill Barr, si è rifiutato di farlo».
Poi Trump ha fatto pressione sul vicepresidente Mike Pence. Una strategia «ridicola», nelle parole dell’Atlantic, per tentare un golpe. «Insistere sul fatto che il vicepresidente abbia il potere di decidere unilateralmente chi ha vinto un’elezione è una delle cose più assurde che ci siano. Trump ha pubblicamente perseguitato Pence per rifiutare i risultati prima del conteggio dei voti elettorali, tradizionalmente cerimoniale al Congresso. Secondo lui Pence avrebbe potuto rifiutarsi di certificare i risultati in alcuni Stati. E pare che Pence avesse preso tale richiesta abbastanza seriamente», si legge nell’articolo.
Falliti tutti i tentativi di invertire l’esito delle elezioni, anche quelli più ridicoli, Trump ha deciso di coinvolgere direttamente l’elettorato. «Il raduno di gennaio che ha preceduto la cerimonia che avrebbe certificato la vittoria di Biden» spiega l’Atlantic «aveva l’obiettivo di fare pressione sul Congresso, e in particolare su Pence, affinché ribaltassero i risultati delle elezioni. Trump ha detto ai suoi seguaci: “Se Mike Pence fa la cosa giusta, vinciamo le elezioni”. Sappiamo che la folla ha saccheggiato il Campidoglio e ha costretto i legislatori a fuggire. Ma se la folla fosse riuscita a raggiungere i membri del Congresso, le conseguenze avrebbero potuto essere catastrofiche. Trump è stato messo sotto accusa per il suo incitamento, ma i Repubblicani del Senato lo hanno protetto impedendogli di essere condannato. Le persone che hanno tentato di sovvertire la democrazia, inoltre, hanno subito poche conseguenze politiche o legali».
C’è poi un dettaglio spesso lasciato in secondo piano, in questa vicenda: i pochi politici Repubblicani che si sono opposti a questo tentativo di distruggere la democrazia statunitense sono gli unici a dover affrontare le reali conseguenze politiche del loro partito. Tanti esponenti del Grand Old Party, infatti, sono stati messi in discussione, si sono ritrovati invischiati in nuove primarie, o hanno perso la loro leadership: i funzionari Repubblicani che non erano disposti a usare la loro posizione politica per ribaltare i risultati delle elezioni si ritrovano in una condizione difficile, con avversari aggressivi come i fan trumpiani più accesi.
Ad ogni modo, al centro di questi tentativi di golpe trumpista c’è un’ideologia pericolosa: la presunzione che poiché i sostenitori di Trump rappresentano “veri americani”, la volontà di una maggioranza democratica può essere ignorata. Questo non significa che il Partito Repubblicano sia incapace di conquistare la maggioranza su base nazionale o in Parlamento, ma vuol dire che i loro risultati elettorali saranno irrilevanti fin quando i fedeli trumpisti all’interno del partito continueranno a credere di avere il diritto di stare al potere. La loro pretesa di essere gli unici, autentici eredi della tradizione americana significa che si considerano gli unici in grado di governare legittimamente, e sono quindi legittimati a prendere il potere con qualsiasi mezzo. Questa è l’incarnazione moderna di una vecchia ideologia, spiega l’Atlantic, un’ideologia che in passato ha giustificato l’esclusione di alcuni gruppi di americani dal suffragio e dall’esercizio della democrazia. «Le tradizioni americane di non-libertà» conclude Adam Serwer sull’Atlantic «sono sempre rappresentate da chi si crede un protettore della democrazia, e questa vicenda non è diversa. Tant’è vero che il documento di John Eastman diceva che se a Biden fosse stato concesso di entrare alla Casa Bianca “avremo cessato di essere un popolo che si autogoverna”. Il dramma, insomma, non è solo che Trump ha cercato di rovesciare l’esito di un’elezione. È che così tanti americani lo appoggiavano».