di Davide Piacenza (esquire.com, 4 agosto 2023)
Da anni Lizzo, 35enne cantante afroamericana nata a Detroit, in Michigan, è non soltanto uno dei nomi più prestigiosi del mainstream musicale internazionale, ma anche un punto di riferimento per il nuovo attivismo di stampo liberal: la performer ha fatto della sua condizione di donna nera sovrappeso un marker di identità finora sottorappresentate e vittime di discriminazione. Lo scorso dicembre Lizzo ha usato il suo momento sul palcoscenico dei People’s Choice Awards per «amplificare le voci marginalizzate» di 17 attiviste di ogni appartenenza, consegnando al pubblico un altro discorso ispirato da portavoce dei movimenti sociali.
Quest’epoca però disfa gli idoli con la velocità con cui li crea, e anche le celebrity d’Oltreoceano non fanno eccezione: nelle ultime ore i media americani hanno rivelato che un gruppo di ex ballerine di Lizzo l’ha denunciata a Los Angeles per l’«atmosfera apertamente sessuale» che vigeva nei suoi tour e spesso, secondo le accuse, si traduceva in molestie; Arianna Davis, una delle ballerine che vuole portare in tribunale la vincitrice del Grammy, ha detto al magazine TMZ che quando ha preso qualche chilo Lizzo avrebbe risposto convocando una riunione in cui avrebbe spiegato che «le ballerine vengono licenziate se ingrassano», passando poi dalle parole ai fatti dopo aver scoperto che Davis era affetta da un disordine alimentare.
Lizzo ha risposto al caso definendo le accuse «implausibili come sembrano», e spiegando che le persone coinvolte in passato sarebbero già state rimproverate durante i tour per i loro «comportamenti inappropriati», e ovviamente è bene aspettare che la giustizia statunitense chiarisca i ruoli e i fatti in esame. Ma qualche dato, seppure parziale, su cui riflettere già c’è: per usare le parole dell’avvocato delle ballerine Ron Zambrano, «il modo scioccante in cui Lizzo e il suo team hanno trattato le loro performer sembra andare contro tutto ciò che Lizzo sostiene in pubblico», mentre in privato l’artista «prende di mira il peso delle sue ballerine e le umilia in modi che non sono solo illegali, ma anche assolutamente demoralizzanti».
In attesa che il processo faccia il suo corso, non possiamo non rifarci a quelle dosi minime di buonsenso ed empatia che ci suggeriscono che è improbabile che un gruppo di donne si inventi nello stesso luogo e allo stesso tempo molestie mai avvenute: Lizzo ha i modi e i mezzi per difendersi, e ci auguriamo che ne esca con una reputazione immacolata. Intanto, però, che dire di coloro che per anni ci hanno spiegato che l’espressione virtue signalling – cioè l’esibizione di virtù in pubblico, a cui oggigiorno corrispondono benefici anche economici – fosse soltanto un’invenzione reazionaria per sminuire gli attivisti? Cosa rispondere ai catechisti dell’immacolatezza a priori degli intenti, quelli secondo cui non è mai esistito un problema con la commercializzazione algoritmica delle buone cause?
Che sia o non sia come descritto nella denuncia consegnata al tribunale di Los Angeles, il caso Lizzo dice anzitutto che una parte dell’attivismo liberal di oggi, per ripetuta e ormai ineludibile evidenza, è stretto in una morsa con la performance e il marketing, e che questo legame andrebbe problematizzato e discusso. Una celebrità milionaria può sostenere le lotte delle persone marginalizzate e meritare tutta la nostra approvazione, ma renderla il nostro faro significa sempre, in ogni caso, abdicare al proprio senso critico in favore di un sistema che premia chi esibisce e mette sé stesso su un piedistallo. Che è proprio il contrario di qualsiasi definizione di “inclusione”, no?