di Daniele Cassandro (internazionale.it, 3 maggio 2022)
«Perché musica country queer? Perché a volte amiamo una cultura che non ricambia il nostro amore». Con queste parole della musicista e attivista lgbt+ Karen Pittelman si apre il bel libro Queer Country di Shana Goldin-Perschbacher (University of Illinois Press, 2022). Il libro esplora la poetica e la produzione di cantautori e cantautrici country queer e transgender, dalle origini ai brani di super star di oggi come Orville Peck e Lil Nas X.
E mostra come, dai primi anni Settanta a oggi, le voci queer, marginalizzate in una cultura rurale, conservatrice e bigotta come quella del Midwest degli Stati Uniti, si siano sviluppate fino a creare un lungo fiume carsico con i suoi affluenti, i suoi sottogeneri e un linguaggio proprio. All’origine di tutto c’è un cantautore nato in una cascina dello Stato di Washington nel 1944, Patrick Haggerty, autore del primo album apertamente gay della storia della musica country western statunitense. Il disco di debutto del suo gruppo, Lavender Country, del 1973, viene autoprodotto e autodistribuito grazie ai fondi di una piccola associazione per i diritti delle persone lgbt+, la Gay Community Social Services of Seattle. «“Perché proprio il country” è la domanda più sbagliata da porsi» dice Haggerty, intervistato nel libro.
«Ci sono molte ragioni per cui il country piace a musicisti queer e trans, nonostante l’assenza di incoraggiamento da parte dell’industria. Le canzoni vecchie e nuove della tradizione country e folk spesso parlano della vita dal punto di vista della gente comune. Raccontano storie di lavoratori e lavoratrici e tra di loro ci sono anche persone non eteronormative: gente che lavora a cottimo, vagabondi, cowboy, donne forti e impertinenti, lavoratori e lavoratrici del sesso, fuorilegge, attivisti e anche i vecchi». Persone marginalizzate che non avrebbero avuto ascolto nella cultura mainstream nordamericana e che invece attraverso la musica country, basata saldamente su due pilastri, il racconto e l’autenticità, possono cantare le loro storie.
La storia di Haggerty è quella di tanti gay della sua generazione: nato in campagna, sesto di dieci figli, viene fin da piccolo additato per la sua effeminatezza. Ribelle fin da piccolo, non nasconde mai la sua sessualità, una cosa che negli Stati Uniti rurali degli anni Cinquanta gli costa un ricovero coatto e lo stigma sociale. Se la vostra idea di idillio gay è Brokeback Mountain fate due chiacchiere con Patrick Haggerty: parlerà di solitudine, rabbia, senso d’impotenza e di un’unica via di salvezza che non è nell’integrazione nella società eteropatriarcale, ma dopo la rivolta di Stonewall è solo nella radicalizzazione. Dopo un viaggio a Cuba nei primi anni Settanta, Haggerty diventa comunista e comincia a vedere il suo attivismo gay in chiave intersezionale: ritiene l’oppressione degli omosessuali, delle lesbiche, delle persone trans, queer o semplicemente non conformi alle regole del patriarcato una cosa sistematica, con alla base ragioni politiche ed economiche.
Il radicalismo gay di quegli anni è giustamente rabbioso e non cerca l’accettazione o l’integrazione nella società eterosessuale. Vuole la rivoluzione, sovvertire l’ordine precostituito. È così nella Seattle dei collettivi in cui milita Haggerty ed è così in Italia, soprattutto a Torino, Milano e Roma, nell’epoca in cui il Fuori! [o FUORI, acronimo di Fronte Unitario Omosessuale Rivoluzionario Italiano – N.d.C.] muove i suoi primi passi. Lavender Country nasce con un’urgenza rivoluzionaria. «Era un modo per passare agli altri informazioni vitali», spiega oggi Haggerty. L’album si apre con questi versi, un gioioso invito al coming out: “Mi sveglio e dico hip-hip urrà, sono contento di essere gay. Non riesco a trattenere la felicità. Da quando l’ho provato me ne sto qui sdraiato e saluto il Sole, perché il tempo dell’amore gay è appena cominciato. Quindi vieni e rotoliamoci nel fieno”.
Sul finale, la canzone si trasforma in un esplicito panegirico delle gioie del sesso gay pieno di metafore bibliche trasformate in sfacciati doppi sensi: cose tipo soffiare nella tromba dell’Arcangelo Gabriele tra fiumi di latte e miele. La canzone simbolo dell’album, la Blowin’ in the wind dell’attivismo gay, è rabbiosa a cominciare dal titolo: Cryin’ these cocksucking tears (Piangendo lacrime da succhiacazzi). Nelle canzoni country si piange sempre molto. È sempre cryin’ di qua e cryin’ di là. Ma nessun cantautore hillbilly, in mezzo a tutto questo piagnucolare, si è mai spinto a usare una parola come succhiacazzi. E, nella migliore tradizione del deturnamento situazionista, Haggerty si rimpossessa di un insulto omofobo e lo usa come arma contro i suoi nemici.
Cryin’ these cocksucking tears nasce dal senso di rabbia che Haggerty ha provato quando si è trovato, come omosessuale, marginalizzato all’interno del suo stesso movimento politico. Questo senso d’isolamento all’interno dei collettivi di ultrasinistra lo hanno provato attiviste e attivisti di tutto il mondo in quegli anni: femministe, gay, lesbiche, trans e lavoratori e lavoratrici del sesso hanno sempre avuto un rapporto turbolento con la sinistra rivoluzionaria, che, nonostante tutto, rimaneva abbarbicata a una mentalità patriarcale e omofoba. Cryin’ these cocksucking tears è quindi un’invettiva contro la società patriarcale. Comincia con un verso che più radicale non si può: “Combatto perché non esistano più uomini etero”.
Altro che l’“Imagine all the people living in a world of peace” di John Lennon. La canzone però arriva gradualmente al punto nei tre ritornelli in cui le “lacrime da succhiacazzi” diventano, da segno di debolezza e di piagnucolosa effeminatezza, un atto di sfida: “Il tuo sesso è un disco rotto che si incanta da diecimila anni, e la battaglia è appena cominciata signore, e senti cosa ti dico signore, ho finito di piangere le mie lacrime da succhiacazzi”. A fare da controcanto c’è la cantante e violinista lesbica Eve Morris, che si lancia in un’imitazione dello stile eroico della folksinger Joan Baez, all’epoca simbolo e totem di ogni forma di attivismo canoro. È l’unica concessione al camp in un album asciutto e affilato come una lama.
Nel 2020 Trixie Mattel, drag queen resa famosa dal talent show RuPaul’s Drag Race e cantautore country, ha ricordato l’importanza di quella canzone epocale: «È come se Haggerty avesse usato le parole di chi lo offendeva. Come a dire: “Non preoccuparti per me, sono solo un succhiacazzi, il mio non è un vero dolore». Brian Michael Firkus (vero nome di Trixie Mattel) è nato nel 1989 e fa parte di una generazione di artisti gay che hanno riscoperto Lavender Country e Haggerty nel 2014, quando una piccola etichetta di Seattle, la Paradise of Achelors (Paradiso degli Scapoloni), ha ristampato l’album dandogli nuova vita. Haggerty, infatti, nel 1976 ha sciolto la band per dedicarsi alla politica e alla famiglia. A metà degli anni 2000 ha sposato il compagno di sempre, un marinaio afroamericano in pensione, e si è dedicato ai suoi due figli, uno adottato e l’altro concepito con un’amica lesbica e cresciuto con lei in una famiglia allargata.
Solo grazie all’attenzione puntata di nuovo sul suo primo album Haggerty ha ripreso a suonare. Ma quando gli si chiede di commentare il successo ritrovato rimane l’anticapitalista di sempre: «So benissimo che questa attenzione sul mio lavoro è una cosa borghese […], il successo è una trama capitalista, che puzza di trappole. Ho scritto Lavender Country per mettere in moto il movimento e per trasformare la società […], so troppo bene che proprio per aver fatto questo disco mi è stata negata una carriera nella musica country». Perché a volte amiamo una cultura che non ricambia il nostro amore.