(ilpost.it, 13 marzo 2022)
Nelle ultime due settimane l’invasione dell’Ucraina è stata, prevedibilmente, uno degli argomenti più seguiti, discussi e commentati sui social media, peraltro considerati in questi giorni sia potenziali mezzi di propaganda sia parte essenziale del racconto della guerra. Oltre alla parte che ha espresso sentimenti di costernazione per le vittime e preoccupazione per gli sviluppi del conflitto, una quota significativa delle reazioni collettive all’invasione emerse sui social nei Paesi occidentali ha mostrato in modo piuttosto unitario un certo livello di aggressività verbale, eccentricità e umorismo spesso giudicato fuori luogo o di cattivo gusto. In tanti hanno fatto battute riferite a una sorta di continuità nelle sventure recenti del mondo, associando la pandemia e i rischi di una guerra mondiale.
Altre persone, anche tra quelle note al pubblico, hanno condiviso pensieri contro il presidente russo Vladimir Putin, oppure suggerito strategie militari e persino analisi psicologiche, apparentemente con scarso senso della misura. Altre ancora hanno condiviso meme in cui Putin, il presidente ucraino Volodymyr Zelensky e altre persone coinvolte nella guerra in Ucraina sono viste come personaggi delle saghe cinematografiche Marvel. Gran parte di queste espressioni ha rafforzato tra alcuni osservatori interessati al dibattito sul ruolo dei social media nelle società l’impressione di un marcato squilibrio esistente tra le reazioni sulle piattaforme, considerate nel loro insieme caotico e imprevedibile, e quelle individuali, generalmente più empatiche nell’immediato e consapevoli della gravità e complessità delle circostanze. Per spiegare la diffusione di questi atteggiamenti sui social, un articolo sull’Atlantic ha suggerito una chiave di lettura che richiama la nozione di “assiepamento” (milling) nota all’interno della psicologia delle masse, una branca della psicologia sociale che studia i modi in cui la psicologia di una folla differisce e interagisce con quella degli individui che ne fanno parte.
Diversi studi di psicologia delle masse – di cui lo psicologo e sociologo francese Gustave Le Bon fu uno dei primi teorici, alla fine dell’Ottocento – indicano come fattori che influenzano il comportamento della folla la perdita di responsabilità dell’individuo e l’impressione personale di universalità del comportamento che assume, fattori che aumentano in rapporto alle dimensioni della folla. Nella folla, secondo Le Bon, gli «attori sociali» perdono consapevolezza del loro agire e tendono a subire gli effetti di una forma di «contagio» mentale, finendo per comportarsi diversamente da come farebbero individualmente. In questi studi sono definiti «processi di assiepamento» (milling process), teorizzati dal sociologo americano Robert Ezra Park, contemporaneo di Le Bon, le modalità tipiche di raduno spontaneo di gruppi di persone numerosi ma non organizzati in seguito a eventi che interrompono le routine istituzionalizzate e producono incertezza e «inquietudine sociale» (social unrest). Dalle interazioni sociali tipiche dell’assiepamento gli individui traggono reciproca influenza emotiva e sviluppano un impulso comune che guida la loro azione collettiva.
Nel caso delle reazioni sui social all’invasione dell’Ucraina, secondo l’Atlantic, l’assiepamento si è tradotto in un’eccitazione agitata e confusa tra le persone che intanto cercavano di capire come pensare a ciò che stava succedendo: come evitare fonti inaffidabili, come inquadrare l’invasione in una prospettiva storica, come fare donazioni. E l’attenzione si è progressivamente spostata dall’evento in sé alla percezione che le altre persone avevano dell’evento. Secondo il sociologo americano Herbert Blumer, allievo di Park, sia la folla sia gli altri due più evoluti tipi di raggruppamento collettivo elementare – la massa e il pubblico – operano al di fuori di un sistema normativo, culturale e morale di riferimento. Durante i processi di assiepamento le persone all’interno del raggruppamento cominciano a muoversi e a parlare dell’evento che sta accadendo. L’effetto principale dell’assiepamento, scrisse Blumer nel 1939, «è quello di rendere gli individui più sensibili e reattivi l’un l’altro, in modo che diventino sempre più preoccupati l’uno dell’altro e sempre meno reattivi rispetto ai consueti oggetti di stimolazione».
In uno studio pubblicato nel 2016, un gruppo di ricercatrici e ricercatori del dipartimento di sociologia della University of Washington utilizzò il concetto di assiepamento per definire e analizzare commenti e opinioni circolate su Twitter nelle ore successive agli attentati alla maratona di Boston nel 2013. In una situazione di incertezza, scrisse il gruppo di ricerca, le persone su Twitter cercarono di dare collettivamente un senso alle informazioni disponibili attraverso varie fasi, tra cui l’interpretazione e la discussione delle informazioni ancora poco chiare, la formulazione di varie ipotesi e teorie, anche ingenue, e la contestazione dell’attendibilità delle fonti. In un certo senso è come se in questi giorni le persone stessero replicando sui social dinamiche tipiche dell’assiepamento, sebbene nella letteratura scientifica questo concetto sia generalmente descritto come una fase evolutiva del comportamento collettivo che prelude a un’azione di gruppo significativa (evoluzione non necessariamente presente nel caso dei social). Ci facciamo prendere dall’emotività, facciamo prediche ed elogi, confutiamo teorie e condividiamo «stupidaggini che vengono immediatamente spazzate via», ha scritto l’Atlantic. Secondo il sociologo e ricercatore Timothy Recuber, che si occupa di mass media e cultura digitale allo Smith College, in Massachusetts, e ha scritto il libro Consuming Catastrophe: Mass Culture in America’s Decade of Disaster, in «tempi inquieti» le persone faticano a trovare risposte appropriate rispetto alla situazione. E molte di quelle risposte, sui social, sono soltanto «espressioni della nostra impotenza come comuni cittadini», non tentativi concreti di influenzare intenzionalmente la situazione, ha detto Recuber.
Nelle interpretazioni delle dinamiche e degli effetti dell’assiepamento e delle diverse fasi di raggruppamento degli individui date da altri sociologi dopo Blumer, e in parte anche dallo stesso Park prima di Blumer, non sempre e non necessariamente l’assiepamento è seguito da azioni collettive pericolose e dirompenti. A volte i comportamenti collettivi consentono a un gruppo di rinnovarsi ed evolvere, e gli individui al suo interno non perdono del tutto il controllo delle loro facoltà di fronte all’evento destabilizzante. Negli anni Cinquanta, sociologi americani come Ralph Herbert Turner e Lewis Killian contribuirono a ridimensionare l’idea di anormalità attribuita ai comportamenti collettivi rispetto a quelli istituzionalizzati. E spiegarono che i movimenti casuali e spontanei tipici dell’assiepamento sono a volte utili agli individui all’interno del raggruppamento per capire come le altre persone stanno reagendo a una certa situazione, e per cercare di indovinare quali pensieri o comportamenti saranno approvati all’interno del gruppo. Che non è troppo diverso da quello che succede su Twitter, secondo l’Atlantic.
Anche nel caso dell’assiepamento sui social, esiste tuttavia il rischio di una prevalenza di reazioni agli eventi in grado di disattivare alcuni normali meccanismi individuali di valutazione dell’attendibilità delle fonti, con conseguenze negative nella diffusione di informazioni false e sentimenti collettivi alimentati dalla propaganda. Il giornalista statunitense Glenn Greenwald, noto per aver realizzato le inchieste sulle rivelazioni di Edward Snowden e da diversi anni sempre più criticato e isolato per le sue posizioni giudicate in varie occasioni filorusse, ha tuttavia sottolineato un rischio effettivamente esistente in questi giorni. Molti contenuti non verificati e potenzialmente prodotti per fare apparire, per esempio, gli ucraini «combattenti della resistenza nobili e coraggiosi» o i russi «assassini barbari e sprovveduti», sono stati diffusi dappertutto con poche preoccupazioni e cautele riguardo alla loro attendibilità. Questi contenuti, secondo Greenwald, causano un incremento di «tribalismo, fanatismo, rettitudine morale ed emotività», tutte potenti pulsioni che derivano da millenni di evoluzione. E «più unità emerge a sostegno di una narrazione morale mondiale, più diventa difficile per chiunque valutarla criticamente», perché le facoltà necessarie per fare quelle valutazioni vengono deliberatamente disattivate «sulla base della convinzione di aver raggiunto la certezza morale assoluta».