di Stela Xhunga (linkiesta.it, 3 ottobre 2018)
Quello di ieri è stato un risveglio che a molti è parso distopico. Da una parte, la custodia cautelare del Sindaco di Riace, che si sarebbe mosso consapevolmente sul filo della legalità per aiutare persone straniere a ottenere certificato di residenza, carta di identità, e l’agognatissimo permesso di soggiorno, che solo chi ha toccato con mano la legge Bossi-Fini sa quanto sia complicato ottenere.Dall’altra, l’esultanza di Matteo Salvini, che per sua ammissione in un certo senso ha fatto la stessa cosa di Mimmo Lucano: accantonare le leggi e i trattati internazionali per perseguire quello che ritiene essere un bene superiore alla legge, la salvaguardia del popolo italiano dall’immigrazione clandestina. Entrambi, all’opposto, hanno contravvenuto a regole ritenute inique in risposta a un dovere morale – l’integrazione per l’uno, il respingimento per l’altro – più importante. Entrambi, agli occhi dei propri sostenitori, divenuti eroi degli ultimi, novelli Robin Hood. Una polarizzazione surreale, esasperata nel mezzo da chi attacca la Magistratura in base alla simpatia che prova per l’indagato, e dona così un sincero contributo all’Italietta petalosa, provinciale, garantista a giorni alterni, ma sempre giustizialista nei confronti di una Magistratura che fra “toghe rosse!” e “toghe nere!” pare ormai la bandiera del Milan. Ma a rendere ancora più deforme uno scenario di per sé già bastante a candidarsi a sequel di Orwell 1984 (Radford, mi leggi?) ci hanno pensato quelli che cupi, basiti, ancora eccitati dalla manifestazione in piazza la domenica scorsa, di fronte ai ragazzi di colore colti a scattarsi una fotografia con il Ministro degli Interni in visita a Napoli, hanno spirato: “tu quoque, immigrato, fili mi, un selfie con Salvini?”. Tra i social si è subito aperta la caccia alla spiegazione del tradimento, imputabile ora a banconote da venti euro lestamente offerte ai poveri immigrati, ora una sindrome di Stoccolma di cui questi sarebbero vittime. Tutte ipotesi da non escludere, con buona pace dell’uomo bianco engagé, che nella lotta al razzismo si scopre più partecipe dell’uomo nero intento a farsi il selfie con Salvini. Sbigottimento, l’amaro sapore del tradimento. Ma il punto è proprio questo: non c’è stato alcun tradimento. Non importa se quei ragazzi si siano scattati un selfie per trollare Salvini, perché attratti da uno sconosciuto con al seguito delle telecamere, perché ostaggi della sindrome di Stoccolma, o perché allettati da una banconota. Ciò che l’uomo bianco engagé dovrebbe iniziare a comprendere è che l’immigrato del cui destino si è preso a cuore ha tutto il diritto di sbattersene della questione razzismo, preferendole addirittura una banconota da cinque euro, perché in quanto condizione necessaria al buon esito di tutte le lotte civili, compresa quella contro il razzismo, è la presenza di uno Stato di diritto, dove ognuno è libero di fare della propria vita (senza ledere quella altrui, eccetera eccetera) quello che vuole, anche di fare un selfie con Salvini. Sì, anche se si è originari dell’Africa. “Essere sepolti vivi è, non v’è dubbio, la più terribile delle stremità mai toccate in sorte a misero mortale”, scriveva Edgar Allan Poe in uno dei suoi più bei racconti, La sepoltura prematura. E il ricatto morale della riconoscenza, erede di un assistenzialismo forse vassallatico prima ancora che coloniale, che la sinistra e la destra sottilmente sottopongono agli ultimi arrivati, sembra confermare quel gran genio di Poe.