di Serena Tibaldi (d.repubblica.it, 11 maggio 2020)
Tutto ci saremmo aspettati solo qualche mese fa, ma non che, tra gli scenari futuri visti in passerella, quello che si sarebbe avvicinato di più alla realtà sarebbe stato l’ideale proposto da Marine Serre. Non per mancanza di stima, ma perché la visione della ventinovenne francese, che in tre anni è diventata uno dei nomi da seguire del panorama internazionale (ha vinto pure l’Lvmh Prize, e ha firmato un contratto di collaborazione con Nike), pareva essere solo un esercizio di stile, tra l’estetica da rave-party, i richiami alla cultura islamica e l’insistenza su una visione assai cupa del futuro.Il disastro ecologico è un suo tema ricorrente, come pure le mascherine di protezione, onnipresenti nelle sue collezioni sin dal debutto. Una trovata, un gadget glorificato, avevano detto molti; avanti veloce a oggi, ed eccoci sommersi dai tutorial per crearci le mascherine da soli, prendendo spesso a esempio proprio i suoi modelli. Quindi tutto sommato aveva ragione lei a essere così pessimista. In realtà la Serre non è stata nemmeno l’unica che in questi mesi ha insistito su certi temi. Si sa che la moda è lo specchio dei tempi, e non è certo raro che usi, costumi e consumi globali siano anticipati da chi fa abbigliamento. Ma qui le cose sono diverse. Qui in tanti (troppi?) si sono cimentati su un’idea di moda post-apocalittica; e visto come sono andate le cose, tra quarantena, auto-isolamento e città che per settimane sono parse disabitate, tanta lungimiranza lascia come minimo stupiti. Difficile non notare, negli show andati in scena tra febbraio e marzo, la quantità di futuri distopici e paesaggi post-apocalittici immaginati, di abiti trasformati in bozzoli protettivi e di look a metà tra i guerrieri alla Mad Max e gli esploratori di frontiera, gli involucri di plastica trasformati in decoro e un’innegabile pessimismo di fondo.
In un altro scenario tutto questo sarebbe apparso come quello che è, un trend passeggero. Ma il contesto in cui al momento ci si trova rende impossibile non fare il parallelo e rendersi conto che è da parecchio tempo che la moda non interpreta in maniera tanto fedele e calzante il periodo storico. E non è nemmeno cosa recente: già lo scorso settembre c’erano le prime avvisaglie. Basti prendere in esame, per esempio, le prime uscite della sfilata primavera/estate 2020 di Gucci, ambientata in una specie d’asettica cattedrale con tapis roulant al posto della passerella: una serie di ragazzi scalzi, struccati e vestiti di bianco (tute intere, pseudo-camici da ospedale e alcune camicie di forza non accolte benissimo da tutti) in aperto contrasto con la moda rutilante che ci si aspetta di solito da Alessandro Michele. Non si parlava di apocalisse, vero, ma l’idea di una realtà diversa e annichilente si percepiva eccome; e, alla luce dei quasi sessanta giorni d’isolamento cui siamo stati obbligati, la faccenda si nota. Da lì, come spesso accade, è bastato resettare lo sguardo e concentrarsi su quei riferimenti precisi per rendersi conto di quanto gli stilisti abbiano inconsciamente colto ciò che sarebbe accaduto una manciata di mesi dopo.
Come Rei Kawakubo, che con Comme des Garçons, lo scorso settembre, dando vita alla sua versione dell’Orlando di Virginia Woolf, ha chiuso la sfilata proiettando le sue creature nel futuro, incarnato in una serie di look minimal-futuristici in nero totale assai simili all’estetica cibernetico-dark alla Matrix. E a proposito di Matrix, trilogia che ha ridefinito il genere: Lana Wachowski (autrice e regista, con la sorella Lilly, dei film originali) ha finalmente messo mano alla quarta puntata della saga. Tutto è ovviamente in stand-by per ora, ma se si deve giudicare dalla quantità di riferimenti alle prime tre opere che ancora si vedono in giro (il vinile nero usato a ettari, gli scarponi da combattimento, gli occhiali da sole XXS e una discutibile preferenza per i capelli scolpiti con il gel) si può solo immaginare che risonanza potrà avere la pellicola.
Rick Owens, uno dal senso pratico come pochi altri, ha unito l’utile al dilettevole, mandando in passerella le lenzuola di piumino prodotte da Moncler per la strepitosa roulotte “attrezzata” che hanno creato assieme. Gli è bastata una catenella per fermarle sulle spalle, trasformandole così in mantelle calde e pure estremamente scenografiche, soprattutto abbinate a una passerella piena di fumo e a un look da rockstar dell’Apocalisse. E poi ci sono le gonne di paglia di Dior o i vestiti che paiono fatti con le cortecce di Acne Studios, per non parlare della passerella costruita all’interno di una enorme, labirintica serie di tunnel trasparenti issata in un giardino per il debutto di Felipe Oliveira Baptista da Kenzo. L’intenzione non era quella di citare le strutture per l’isolamento d’emergenza (anche perché ci hanno lavorato per mesi per realizzarla), ma a fine febbraio, con il contagio da Covid-19 in piena ascesa, è stato difficile pensare ad altro.
Ma in quanto ad atmosfera nessuno ha battuto Balenciaga, uno degli show più memorabili degli ultimi anni. Nel backstage il direttore creativo Demna Gvasalia, ridendo, ha negato che la sua fosse una visione apocalittica, ma c’è poco da fare: lo era eccome. Buio pesto, un auditorium semi-allagato con le prime file dei sedili completamente sommerse e i modelli che, veloci e incazzati, camminano letteralmente sull’acqua. L’unica illuminazione offerta dalle proiezioni sul soffitto, in cui si sono alternati palle di fuoco, mare in tempesta, stormi d’uccelli, nuvole e lampi, tutto riflesso nello specchio d’acqua sottostante. Musica – un mix di techno e classica – a un volume al limite del sopportabile. Un’esperienza difficile da dimenticare (che la collezione fosse strepitosa ha pure aiutato), e che con il senno di poi s’è trasformata nella definizione “morale” di questa primavera: è stata davvero la fine del mondo.