di Alessio Marchionna (internazionale.it, 11 dicembre 2023)
La sera del 12 gennaio 1971 milioni di statunitensi che stavano guardando la tv si trovarono davanti un messaggio insolito: «Il programma che segue vuole accendere un riflettore umoristico sulle nostre fragilità, sui nostri pregiudizi e sulle nostre preoccupazioni. Rendendoli fonte di risate, speriamo di mostrare, in modo maturo, quanto siano assurdi». Il messaggio era strano perché a quell’epoca le emittenti non si preoccupavano che i loro contenuti d’intrattenimento potessero infastidire gli spettatori.
In tv si parlava degli eventi tragici e traumatici di quel periodo – la guerra in Vietnam, le proteste e gli scontri di piazza, il razzismo – ma solo nei notiziari. Gli spettacoli di intrattenimento, in particolare le sit-com, erano isole felici, momenti in cui le persone potevano divertirsi senza dover mettere in discussione il proprio stile di vita né avere l’impressione di doversi far carico dei problemi della società. Ma era proprio quello che si proponeva di fare lo spettacolo che cominciava quel 12 gennaio di cinquantadue anni fa: costringere le decine di milioni di americani che guardavano la tv – in gran parte bianchi e di classe media – a confrontarsi con realtà, famiglie, preoccupazioni diverse dalle loro.
Un proposito ambizioso che era dichiarato già nel titolo dello spettacolo, All in the family, “Tutto in famiglia”. Come dire: la famiglia americana è grande e piena di problemi che ci riguardano tutti. L’aveva scritto Norman Lear, un veterano della Seconda guerra mondiale (di stanza in Italia, a Foggia) e un uomo di sinistra convinto che la televisione dovesse funzionare come uno specchio della società e potesse in una certa misura essere un motore di cambiamento. Il 5 dicembre 2023 Lear è morto a centouno anni. Sulla stampa statunitense è stato celebrato come una delle persone che hanno influenzato di più la cultura americana nel secolo scorso (in Italia All in the family fu trasmessa inizialmente con il titolo Tutti a casa e poi come Arcibaldo).
Il protagonista di All in the family, col tempo diventato un’icona socioculturale, era Archie Bunker (interpretato da Carroll O’Connor), scaricatore di porto del Queens, a New York, che beveva birra, fumava sigari, era razzista e reazionario. Bunker si trovava spesso a litigare con la figlia femminista Gloria e con il genero progressista Michael (interpretato da Rob Reiner, il regista di Harry, ti presento Sally), mentre sua moglie Edith cercava di preservare una serenità familiare sempre più precaria. Lear aveva creato il personaggio di Bunker ispirandosi a suo padre, un uomo rude e severo che usava spesso un linguaggio razzista, e agli operai risentiti per i cambiamenti sociali in corso.
Meno di un anno prima che la sit-com andasse in onda, a maggio del 1970, un gruppo di operai dell’edilizia aveva attaccato i manifestanti che protestavano contro la guerra in Vietnam nel distretto finanziario di Manhattan. Pochi giorni prima quattro studenti erano stati uccisi dalla Guardia Nazionale durante una protesta pacifica alla Kent State University, in Ohio. I fatti di Manhattan sono passati alla storia come “Hard Hat Riot”, per via del fatto che gli operai indossavano elmetti da cantiere, e per alcuni sono stati un’anteprima delle divisioni sociali e politiche di oggi.
Archie Bunker dava voce a quegli americani spesso con battute fulminanti: «Il futuro è ciò che non va nel mondo di oggi. C’è troppo futuro. Non c’è abbastanza passato». Come ha scritto Vulture, la sit-com metteva in scena «l’ansia profonda per i soldi, il risentimento e la frustrazione legata alla classe sociale e all’istruzione, la nostalgia per un’epoca della vita americana migliore che in realtà non era mai esistita, la crisi della fede religiosa, il pregiudizio razziale, la libertà sessuale, l’ottimismo e il fatalismo, il tutto mentre quattro persone cercavano di fare un normalissimo pranzo domenicale».
La Cbs era così preoccupata per le reazioni degli spettatori alla sit-com che decise di assumere altri operatori telefonici per far fronte alla prevedibile raffica di telefonate indignate. Le proteste ci furono ma furono soffocate dalla popolarità dello show, che rimase per molti anni in cima alle classifiche dei programmi tv più visti. Lear replicò quel successo con altre sit-com che illuminavano settori ignorati della società: ha raccontato le famiglie nere benestanti in The Jeffersons, gli afroamericani della classe operaia con Good times e Sanford and son, le femministe con Maude, le donne divorziate con One day at a time, le casalinghe insoddisfatte con Mary Hartman, Mary Hartman.
Nel 1975 il New Yorker scrisse: «È probabile che circa centoventi milioni di americani guardino le commedie di Norman Lear ogni settimana, per un totale di circa cinque miliardi di spettatori l’anno. Lear sembra essere una di quelle figure ordinarie ma non comuni che emergono ogni tanto nella cultura dell’intrattenimento di massa negli Stati Uniti e riescono a ottenere – più o meno da soli e con apparente naturalezza – quello che decine di migliaia di geni dell’economia e di teorici del consumo non riescono a fare usando metà delle energie del governo: una “sensibilità” per ciò che il pubblico vuole prima che sappia di volerlo, e la capacità di darglielo».
[Le sit-com di Lear erano spesso intrecciate tra loro: qui lo spezzone in cui Archie Bunker e George Jefferson si incontrano per la prima volta]
Riflettere oggi sul successo del lavoro di Lear, in particolare su All in the family, è interessante sotto vari aspetti. Per prima cosa, c’è la questione dell’immedesimazione del pubblico con personaggi controversi, che ha sfumature sia culturali sia politiche. Archie Bunker era bigotto, prevaricatore, scorretto sotto vari punti di vista, ma risultava anche buffo, sapeva essere un uomo rispettabile, amava la moglie e la figlia, e in fondo accettava di lottare con la sua incapacità di comprendere i cambiamenti sociali. Questo spiega perché negli anni è diventato un’icona e uno dei personaggi più amati della storia della televisione.
Secondo alcuni, critici televisivi compresi, All in the family non avrebbe mai dovuto essere trasmessa, perché offendeva troppe persone e perché faceva sembrare simpatico e attraente un fanatico. Queste valutazioni sono emerse di nuovo di recente, dopo che Donald Trump ha avuto successo in politica facendo appello al senso di nostalgia e risentimento di persone molto simili – per caratteristiche culturali e demografiche – ad Archie Bunker. Il collegamento è diventato evidente nel 2017, quando Steve Bannon, stratega politico di estrema destra, ha detto che Trump piace alla gente perché «è Archie Bunker». Poco prima Lear si era rifiutato di andare alla Casa Bianca per ritirare un premio proprio perché non voleva avere niente a che fare con quel presidente.
Nel 2022, in occasione del suo centesimo compleanno, Lear scrisse un articolo sul New York Times in cui esprimeva indignazione per le azioni di Trump e dei suoi sostenitori che mesi prima avevano assaltato il Congresso, e rivendicava le sue battaglie da sinistra in difesa della libertà. Parlava anche di cosa penserebbe e voterebbe oggi Archie Bunker: «Con tutti i suoi difetti, Archie amava il suo Paese e la sua famiglia, anche quando veniva rimproverato per la sua ignoranza e il suo bigottismo. Se Archie fosse tra noi, probabilmente guarderebbe Fox News. Probabilmente sarebbe un elettore di Trump. Ma credo che la vista della bandiera americana usata per attaccare la polizia del Campidoglio a Washington lo avrebbe disgustato».
Ma il punto non è chiedersi se Lear abbia contribuito a sdoganare il risentimento della destra americana. La sua storia e quella del suo personaggio più famoso aiutano più che altro a capire come è cambiata la società statunitense nel modo di affrontare il dibattito e i contrasti. Lear costruì il personaggio in quel modo per prima cosa perché sapeva che la serie non avrebbe avuto successo con un protagonista solo negativo; ma lo fece anche perché era una persona profondamente ottimista. Come tanti degli americani che avevano contribuito a sconfiggere il nazifascismo e poi, tornati in patria, avevano usufruito dei programmi di reinserimento del governo, era convinto che attraverso il conflitto si potesse creare una società migliore. Questa visione contiene un’idea tipicamente americana di patriottismo, inteso come una lotta continua per far sentire la propria voce e per poter rivendicare il proprio contributo alla costruzione della società.
Ha scritto Vulture: «Nella concezione di Lear della cultura e della democrazia, la lotta era la cosa che gli americani condividevano. La sua visione, tradotta nella precisione cristallina di una commedia di venticinque minuti vista da sessanta milioni di persone, presentava l’esperienza americana universale come un litigio. Persone che vivono insieme, che litigano e che comunque restano parte della stessa famiglia. Oggi non potrebbe esistere una cultura condivisa del grande litigio americano; la televisione si concentra troppo sul grande allontanamento tra gli americani, un Paese dove Archie Bunker e suo genero Michael fanno ognuno il loro spettacolo e non possono guardare quello dell’altro».